Renato Miani

Affermato compositore, docente presso il conservatorio “J. Tomadini” di Udine, collaboratore e amico del Coro Monte Canin

17 novembre 2008

Il canto popolare rappresenta una sorta di pretesto che dà origine a strutture di particolare complessità, in cui lo stesso materiale viene “inghiottito” dalla trama sonora. Un caso è quello delle composizioni su cantus firmus, come ad esempio le messe che hanno come tenor la melodia profana L’homme armé. Molti i compositori che hanno utilizzato questo materiale per i loro edifici polifonici: Dufay, Ockeghem, Despréz, Obrecht, Brumel, Palestrina…

In queste composizioni il materiale tematico serve allo stesso tempo da base strutturale per la costruzione ed allo stesso tempo garantisce l’unità di una struttura così ampia e articolata.

Interessante pure l’esempio della Fuga in Sol minore BWV 542 di Bach, il cui soggetto è stato modellato sulla melodia popolare olandese “Ick ben gegroet”. Pur in un contesto essenzialmente diverso, la funzione del materiale è simile al caso precedente.

Parallelamente ai problemi strutturali si pone la questione del linguaggio, che nel caso della musica destinata al coro è particolarmente delicata. Questo non significa che il compositore debba modificare il suo mondo sonoro a seconda del destinatario; significa semplicemente entrare in un certo ordine di problemi.

È da premettere che la proliferazione di linguaggi e stili è uno degli aspetti più interessanti ed allo stesso tempo più problematici della musica del Novecento. Se fino all’epoca di Mozart non è legittimo parlare di linguaggio di un determinato autore ma di linguaggio dell’epoca, a partire da Beethoven, la convergenza di più fattori ha determinato una crescente tendenza all’individualismo.

L’esigenza di essere originali ha raggiunto livelli esasperati nel secolo scorso, al punto che per molti addetti ai lavori questo sembrava essere l’epicentro di tutte le questioni.

L’effetto di alcuni “diktat” emanati da personaggi che in qualche modo hanno assunto un ruolo da protagonisti, è stato poi ulteriormente appesantito da quella categoria di persone che, piuttosto di pensare con la propria testa, preferiscono fungere da amplificatori, sigillando senza discernimento ma “autorevolmente” le ragioni di chi ha assunto una posizione determinante.

Si è voluto far tabula rasa del passato e sul passato nell’utopia di una palingenesi (ma Tabula rasa è anche il significativo titolo di una composizione di Arvo Pärt, che a sua volta aveva fatto, appunto, tabula rasa di tutto ciò che, per motivi spesso estranei alla musica, ci si sentiva obbligati a fare a partire dagli anni ’50…). Comunque, concludendo questo discorso, non ritengo che quello del linguaggio sia aprioristicamente un problema: la questione è sempre legata all’uso che se ne fa e alle motivazioni, che devono essere sempre profonde e non di circostanza (per me sono capolavori sia Super flumina Babylonis di Palestrina, che Lux Aeterna di Ligeti.

Tornando al mondo della coralità, si può affermare che, sinteticamente, esistano due categorie di compositori che si dedicano al coro: in primis i compositori-direttori che vivendo quotidianamente le problematiche dello “strumento-coro” sono in grado di affrontare la situazione nella maniera spesso più efficace. Poi vengono quelli come il sottoscritto, che hanno un rapporto occasionale con i cori e quindi tendono ad avere una visione più astratta. Queste due categorie sono spesso in conflitto ma entrambe hanno i propri limiti: da una parte il tecnico tende a piegare le esigenze compositive alla resa “strumentale”, il che limita spesso e in maniera significativa il potenziale escursus del brano; d’altro canto il rischio di chi opera in maniera più astratta è di creare un prodotto poco funzionale (nei casi estremi si parla di “musica sulla carta”).

Certo, le potenzialità spesso “represse” delle compagini corali, possono “irritare” la sensibilità dei compositori, ma a me pare che in Italia ci sia ben altro di cui lamentarsi e tutto sommato il mondo della coralità si dimostra molto più vivace di quello istituzionale (la cui logica gestionale – se mai esistesse – parrebbe tendenzialmente improntata alla (auto) distruzione). La mia idea è che bisogna convivere con i mezzi che abbiamo a disposizione, senza accondiscendere eccessivamente ed allo stesso tempo senza forzare troppo. Ostacoli troppo grandi creano situazioni infruttuose ma anche il totale adeguamento è tutto sommato abbastanza sterile.

Riprendendo il discorso sul rapporto compositore-canto popolare, che comunque è sempre il filo che lega tutte queste digressioni, vengo a parlare brevemente delle mie esperienze dirette.

Un primo lavoro che vorrei citare è Un fil di vous per coro virile, su testo di P.P. Pasolini, dove ho utilizzato un materiale di impronta popolare nell’intento di ricreare un clima analogo a certi lavori pasoliniani in dialetto casarsese. Poi è stata la volta di due arrangiamenti di altrettanti canti popolari della Val Resia, sempre destinati al coro virile: Dolüs te biske jasane e Da lipa mö ma Solbiza.

Nel caso di Dolüs te biske jasane il problema principale era costruire una arcata molto ampia, dovuta alla lunghezza del testo, con un materiale sonoro che non esiterei a definire minimale (la melodia era formata da due frasi quasi identiche basate su sole quattro note): la soluzione l’ho trovata – tanto per cambiare – nella letteratura, e in particolare in un lavoro di Bach: la Passacaglia in Do minore per Organo. Il problema di Bach era molto simile al mio: anche nella struttura della passacaglia vi è il pericolo della frammentarietà (ad es. non completamente superato nel finale della IV Sinfonia di Brahms). Il Kantor aveva risolto la cosa regolando le 20 ripetizioni del basso ostinato attraverso una sovra-struttura speculare: Tema // variazioni 1 2 // 3- 4 - 5 // 6 7 8 // 9 // 10 11// 12 // 13 14 15 // 16 - 17 - 18 // 19 20 caratterizzata dalla presenza di 14 gruppi (dove il 14 rappresenta una specie di firma).

Nel mio brano ho creato quattro grandi sezioni caratterizzate da altrettante scelte compositive, che vanno dal graduale passaggio dall’omofonia ad una compiuta accordalità della prima parte (soluzione che tra l’altro mi ha permesso di risolvere anche eventuali problemi mnemonici dovuti alla lunghezza del brano), alla svolta timbrica e tonale della seconda parte, alla rilettura ancora più inaspettata della terza parte, contrassegnata dall’uso del modo eolio e da effetti pedale; nel finale si segnala il ritorno alle sonorità iniziali arricchite da nuove soluzioni contrappuntistiche.

Nel caso di Da lipa mö ma Solbiza, a fronte di una melodia più interessante e di un’estensione del testo più contenuta, ho addottato soluzioni più semplici, quali l’eterofonia e la semplice armonizzazione (ma non sono del tutto soddisfatto del risultato): in sintesi ho lasciato che la linea melodica in un certo senso si “proiettasse” nella dimensione verticale, intervenendo contrappuntisticamente o variando l’armonia solo laddove era necessario inserire elementi di novità. In nessun caso sarei ricorso ad un certo tipo di sofisticazioni armoniche, del tutto estranee alla linea melodica, che determinerebbero una frattura tra la dimensione verticale e quella orizzontale.

Recentemente ho composto un trittico (Rosaianskä Düsä / Anima resiana) su testi in resiano di Sergio Chinese. Si tratta di tre brevi pezzi che rappresentano altrettante sfaccettature della gente e della vallata resiana, dove sia il testo che la musica sono originali, pur rifacendosi in parte alle ambientazioni tipiche (musicali e poetiche) della cultura locale. In particolare si va dal descrittivismo di Plänynä (tavolo), più vicino al folklore locale, a Matë (madre), dove la ricerca degli “affetti” è caratterizzata da un utilizzo intensivo dell’appoggiatura, elemento che incide in modo significativo sul tessuto armonico. A conclusione Rosajanskë Sluvëk (gente resiana), riflette sul passato e sul presente della vallata, segnato dalla svolta post-terremoto, che ha decretato una profonda rivoluzione sociale ed economica. Musicalmente si caratterizza per una certa frenesia ritmica che, rispetto ai brani precedenti, rappresenta simbolicamente “la fretta che ci accompagna” nella vita di oggi.