Marco Maiero

17 novembre 2008

Marco Màiero è nato a Tricesimo nel 1956 e insegna educazione musicale nella Scuola Media. Nel 1981 si è diplomato in trombone presso il Conservatorio "Jacopo Tomadini" di Udine. Ispirato fin da ragazzo dai canti della SAT di Trento, nel 1979 ha fondato il coro "Vôs de mont", padrini il coro Monte Canin di Resia e il coro Crodaioli di Arzignano, con il quale ha iniziato a comporre brani originali di cui è autore del testo. La profonda poesia dei suoi canti, intimamente legati alla terra friulana, la essenziale armonizzazione di eleganti ed ispirate melodie, sono punti di riferimento per un rinnovamento del repertorio corale. Da molti anni collabora con cori italiani e stranieri per l'armonizzazione e la rielaborazione di canti tradizionali o di recente composizione, e appartenenti ad altri repertori e generi. Vasta è anche la sua produzione di musica strumentale, in particolare per gruppi di ottoni. Ha ottenuto di recente tre importanti premi nazionali: XVII edizione del "Premio ai benemeriti della coralità italiana" a Ponte Dell'Olio (PC) nel 2002; VII riconoscimento musicale "Il Caravaggio" a Caravaggio (BG) nel 2003; Premio "Mario Fontanesi" a Toano (RE) nel 2005.

MA CONOSCIAMOLO UN PO’ PIÙ DA VICINO, CON ALCUNI SUOI CONTRIBUTI

(*)tratto dal libro Lipe rožize del Coro Monte Canin Val Resia luglio 1991

Ho accettato molto volentieri l’invito degli amici del coro Monte Canin a dar loro una mano per la realizzazione di un interessante progetto:l’incisione di un disco e la pubblicazione di un testo che raccogliesse i canti resiani che hanno caratterizzato da tempo il coro.

 Lentamente mi sono addentrato in un mondo particolare, dove i suoni della parlata della valle (tra l’altro rimastimi abbastanza misteriosi) hanno quasi fermato il tempo. È stata per me la lieta scoperta di un prezioso tesoro. Nel momento dello studio dei canti per la loro successiva incisione mi sono trovato coinvolto piacevolmente dal loro fluire quasi magico dalle voci dei coristi e ho capito anch’io l’importanza di salvare e promuovere un patrimonio culturale irripetibile.

E così dopo la realizzazione della prima tappa, con la presente opera siamo giunti al secondo importante capitolo del progetto: la pubblicazione dei canti nella loro veste corale.

È - e deve essere - il giusto epilogo al progetto sopra accennato. È, e deve essere, la presente opera, uno stimolo, uno spunto per molti direttori di coro.

I testi ricalcano e raccontano con tutta sincerità popolare i sentimenti di sempre. Le melodie sono cariche di semplice intensità e trasporto, prive di forzature e dagli innumerevoli spunti armonici. I ritmi sono interessantissimi, talvolta strani ed inusuali ma sempre spontanei e calzanti, intrisi di spunti arcaici.

E poi si apprezza volentieri la veste armonica, sapientemente tessuta dal maestro Mario Macchi, ineguagliabile conoscitore della letteratura folkloristica. Egli ha saputo dare profondità e accento a quanto le melodie ispiravano nella loro versione più semplice, così, come fiori appena raccolti.

Notevoli e diversi sono i lavori di don Oreste Rosso che si rivivono trascinati da un ritmo felice, del tutto simile a quello delle danze resiane.

C’è, dunque, nella presente raccolta una piacevole varietà di canti. Essi vanno dall’intima dolcezza di Da pa nazo … di Todero alla festosa allegria di Da lipa ma! Kë bej na jë? alla arcaica sonorità di Da lipa moja Njyvyzä alla vivacità di Ta Ravanška. Notevole poi la semplice sequenza di Dolč möj Jëžuš, armonizzato dal maestro Colussi.

Ad essi mi ci sono aggiunto umilmente e ultimamente anch’io con due lavori Śajauör e Lipa ma Mariza gentilmente propostimi dall’amico Sergio Chinese che tanto merito ha in tutta la storia del coro M. Canin e nella realizzazione di questo importante lavoro.

(*) tratto dal libro Urate del Coro Monte Canin Val Resia aprile 2006

Sono rimasto subito piacevolmente divertito quando la traduzione italiana, superato il misterioso rincorrersi delle parole in lingua resiana, ha rivelato il quadretto felice di cui è protagonista Tučyzä, la sfortunata gattina di Berbet.

La breve, serena ispirazione di Luisa Siega svela il ritrovato piacere, anche tra i più piccoli, del suono della lingua madre, del suono della loro valle che dipinge i luoghi e i fatti nel modo più diretto, unico ed efficace, perché prende vita dai colori del bosco e dal vento della montagna, dalle storie dell'acqua che scende dal Canin.

Nel cantare la storiellina di Tučyzä, affascinato dalla sua confortante ingenuità, ho cercato di ripercorrere il solco della tradizione musicale resiana nella speranza di aggiungere un affettuoso accordo al suo già prezioso e originalissimo tesoro.

(*) tratto dal libro Lipë möj dët del Coro Monte Canin Val Resia aprile 2007

La Val Resia, chiusa ad est dal magico e austero mondo del Canin, ha saputo custodire le albe silenziose, gli amori, le danze di festose ritualità, i nomi della montagna più segreta anche nei canti nati dal cuore della sua gente. I secoli ci hanno tramandati gli stessi col misterioso suono di una lingua dalle origini incerte. La valle, pur vicina al mondo friulano, ha conservato un fascino specifico e accattivante che sa ancora conquistare e coinvolgere chi ha modo di conoscerla.

È accaduto anche a me, quando, tanti anni fa, ho avuto il modo di vivere e condividere preziosi frammenti della storia del coro Monte Canin.

Da allora, un legame di stimolante collaborazione è rimasto vivo e mi ha fatto emotivamente partecipe delle vicende del coro. Ho condiviso e apprezzato la pazienza con cui gli amici che vi cantano hanno saputo raccogliere, come da una prato vestito di primavera, melodie di uno straordinario, inconfondibile, unico profumo.

I canti, come fiori rimasti custoditi dalla neve e dal silenzio, sono rinati, spesso con una nuova veste armonica, e hanno ritrovato eco nella valle. Sono i canti che, anno dopo anno, hanno reso unico e importante il coro Monte Canin; sono i canti che gli danno tuttora la ragione più evidente di esistere. La felice laboriosità del coro ha saputo tenere accesa la tradizione musicale della sua terra e, nonostante la difficile sopravvivenza delle specificità in un mondo sopraffatto da mode uniformanti, i semi della speranza trovano nuova fertilità. Ora si è dimostrato confortante l'interesse delle nuove generazioni; e anche, soprattutto con l'aiuto di queste ultime, seppure tra inevitabili, cicliche difficoltà, il coro troverà l'energia per tramandare la voce della sua valle aldilà dei ponti del tempo, per rivelare al domani la poesia nata dal vento che attraversa i boschi dopo aver raccolto le fiabe incantate dal cuore del Canin.

(*) Dagli Atti del Convegno “Musica in Chiesa”, svoltosi al Conservatorio di Musica di Como, nel maggio 2003, nell’ambito dei convegni di “Polyphoniae” coordinati da Marco Rossi. L’articolo è stato pubblicato in due puntate su “Il Fogolâr Furlan” di Milano, notiziario dell’Associazione dei Friulani residenti in Lombardia, rispettivamente sui numeri 2 e 3 del II e III trimestre 2005. Marco Maiero

L’argomento che mi accingo a trattare esige una doppia analisi, dal punto di vista linguistico e da quello musicale, senza tralasciare il contesto storico/sociale. Si tratta di un argomento insolito e sotto vari aspetti controverso, che richiede di valutare il momento storico della musica sacra, di diagnosticarne eventuali sofferenze e di tracciarne possibili nuovi percorsi. Userò per tutto ciò le competenze del mio lavoro di compositore di canti popolari - tra i quali hanno trovato naturale collocazione diversi canti di ispirazione religiosa - e di cultore di storia della mia terra e della sua lingua. Ovvio, dunque, che parlerò non solo dell’uso di una lingua minoritaria, ma anche di un modo di fare canto corale, di una tipologia musicale ben caratterizzata. Devo premettere che la mia esperienza è rivolta al canto a cappella; e questo particolare ha, a mio avviso, un’importanza rilevante nel canto partecipato della liturgia.

Circa dieci anni fa ho scritto anche una Messa, nata per un impegno verso Don Flaviano, che ormai da anni ospita il coro "Vôs de mont" da me diretto, per la messa natalizia di mezzanotte nella sua chiesa a Monteprato presso Nimis. Per le mie composizioni ho usato spessissimo e con naturalezza la mia madrelingua, il Friulano. Ma se la cosa, da secoli, è usuale e scontata per i canti profani o di ispirazione religiosa, in realtà non lo è per i canti della liturgia. Le cose sono cambiate solo da pochi anni. In Friuli, in realtà, il repertorio di canti sacri è ricco ma non si può affermare altrettanto per i canti liturgici. Se intendiamo infatti per musica liturgica quella che accompagna i vari momenti della celebrazione, il repertorio è abbastanza limitato e in gran parte di recente produzione.

Da tempo immemorabile la tradizione ci ha consegnato canti di ispirazione religiosa nelle parlate locali. In Friuli sono diversi gli esempi di canti ispirati dalla fede, sia di tradizione popolare che di autore. Probabilmente, più andiamo indietro nel tempo, più i canti si identificano nel rapporto uomo-fede-natura e la preghiera in essi contenuta è di solito finalizzata all’ottenimento della benevolenza divina per un raccolto propizio o per la protezione dalle intemperie. I riferimenti al divino sono altresì presenti in moltissimi canti di chiara provenienza popolare e legati a fenomeni tipici della storia friulana, come le guerre e l’emigrazione. Ecco un esempio famoso legato al tema della guerra:

Ai preât la biele stele,ducj i sants dal Paradîs, che il Signor fermi la vuere, che il gno ben torni al paîs ... (Ho pregato la bella stella, / tutti i santi del Paradiso / che il Signore fermi la guerra / che il mio bene torni al paese ...)

O ancora:

Tu dirâs un de profundis co tu sintarâs a dî che jo soi sul cjamp di vuere pa l’Italie a murî ... (Reciterai un De Profundis / quando sentirai dire / che io sono sui campi di battaglia / a morire per l'Italia ...)

Il tema dell’emigrazione è più volte ripreso anche nei canti d’autore, come il seguente, sempre in forma strofica di villotta:

Signorut, cheste preiere e je il flôr da la mê fede; us e dîs matine e sere: fait ch’al torni il gno papà ... (Signore, questa preghiera / è il fiore della mia fede; / ve la dico mattina e sera: fate che ritorni il mio papà ...)

Altri ancora sono i canti della tradizione su motivi e cadenze tipiche della villotta. Gli argomenti sono tra i più svariati, forse prevalgono i canti dedicati alla Madonna:

A vô nestre gran regjine nô pleìn la nestre front; dut il cîl a vô s’inchine, us adore dut il mont ... (A voi, nostra grande regina / pieghiamo le nostre fronti; / tutto il cielo si inchina a voi, / tutto il mondo vi adora ...)

Molti sono anche i canti ispirati al periodo natalizio. Fra questi ultimi brilla, anche se la provenienza non sembra essere sicuramente friulana, l’antichissimo

O staimi atents staimi atents, staimi a sintî a l’orassion che us ài da dî; cuant ch’al nassè il nestri Signôr nassè une stele di grant splendôr... (State attenti, state a sentire / ciò che vi sto per dire; / quando nacque nostro Signore / nacque una stella di grande splendore ...)

Questo canto, tra l’altro, è particolarmente suggestivo e interessante per il fatto di essere uno dei rarissimi esempi di canti friulani in modo minore. Molti compositori di un passato più o meno lontano hanno proposto canti sacri in lingua, ma raramente e in modo sporadico per la liturgia, come lo stesso Zardini, il compositore di Stelutis alpinis. Ricordo il popolarissimo Ave, o Vergjine, us saludi, parole di Gallerio e musica di Garzoni:

Ave, o Vergjine, us saludi, come l’agnul ancje jo; Ave o plene di ogni grazie, il Signôr al è cun vô ... (Ave, o Vergine, vi saluto / anche io come l'angelo; / Ave, o piena di ogni grazia, / il Signore è con voi ...)

Sono di notevole impegno musicale i più recenti lavori di mons. Albino Perosa, scomparso da qualche anno, che fu attento osservatore dell’evoluzione del linguaggio musicale. E poi i lavori del maestro Mario Macchi, triestino, ma friulano di adozione, recentemente scomparso. E via via, fino ai lavori dei compositori e armonizzatori dei giorni nostri.

Particolarmente interessanti sono altre realtà linguisticamente molto diverse dal Friulano ma presenti in Friuli, crocevia di etnie diverse, che convivono da secoli, unite dalla fede comune. Toccante è l’esempio del santuario dedicato a Maria sul monte Lussari, presso Tarvisio, al confine con l’Austria e la Slovenia. Lassù, da secoli, convergono in pellegrinaggio genti di tre nazioni, che propongono i canti del loro repertorio sacro nelle rispettive lingue. Durante le celebrazioni, nella pittoresca chiesetta situata in cima al monte, si sente cantare in Tedesco, Italiano, Sloveno e Friulano. Un quadro consolatorio, che dimostra la forza della fede semplice e viva; la forza dei canti nati dal popolo, efficaci veicolatori di un dialogo immediato con la divinità, segno di una radice autentica che sprofonda nella notte dei tempi.

Ma in Friuli ci sono ancora altri esempi estremamente interessanti di etnie e linguaggi autonomi, chiaramente caratterizzati. Un esempio ci viene offerto dall’antico insediamento dell’area di Sauris. In tale località, situata a 1400 metri sulle alte montagne della Carnia, si continua a parlare un Paleotedesco di origine medievale, tra l’altro praticamente identico a quello che si parla nella non molto distante e veneta Sappada. Anche in quella località i canti sacri hanno una loro autonomia e una sicura suggestione. Recentemente il maestro Mauro Vidoni che dirige il coro “Zahre” (dal nome di Sauris nella parlata locale), ha composto una messa con accompagnamento strumentale interamente su testi in Saurano.

E ancora, la comunità resiana, che appunto vive nella val Resia, presso il confine orientale friulano, forse la più curiosa e oggetto di studio da decenni. Nella vallata, diverse comunità, in diversi paesi, parlano un antico linguaggio di origine slava. Anche qui i canti sacri sono numerosi. Sono spesso caratterizzati da una lunga serie di strofe:

Näš Jëžuš Buh od smärtë ustäl od njähä teške maltre. Bay un ny bil od smärtë ustäl väs čystö svit bëšë śubiën ... (Il nostro Signore Gesù è risorto / dalla morte dalla sua grave passione. / Ma se Lui non fosse risorto / tutto il mondo si sarebbe smarrito ...)

Le comunità, favorite dall’isolamento della valle, esclusa dalle grandi vie di comunicazione, hanno conservato ritualità suggestive che continuano a rivelare, anche attraverso i canti, aspetti di vita cadenzata dal calendario della fede. Per inciso, e come curiosità, sottolineo il fatto che molti di questi canti, unici nel loro genere, sono soggetti a continui e insoliti mutamenti ritmici, in cui è frequente l’uso del 5/4.

Come già accennato in precedenza, tutto ciò di cui si è parlato finora non fa parte della liturgia, se si eccettua il caso della Messa Saurana del maestro Vidoni. Solo da due decenni circa a questa parte esistono canti per la Messa in lingua friulana, perché il percorso per giungere ad uno spontaneo e quasi scontato uso della stessa durante la celebrazione non è stato privo di difficoltà. Al di là del fatto che sia stata la Chiesa stessa a frenare le localizzazioni dei riti, penso che attualmente ci siano altri motivi a frenare una produzione più cospicua e varia. In fin dei conti i testi non mancano. Da anni, cioè da quando lo ha consentito la libertà concessa in merito - o strappata da qualche prete ribelle - esistono in Friuli i libri sacri tradotti in madre lingua, esistono i messali per la liturgia, che hanno permesso anche le celebrazioni in Friulano.

Ma il vivere in un ambiente come il Friuli dove la lingua (per scelta politica) è da poco riconosciuta come lingua autonoma e autentica e dove la stessa lingua (sempre per scelta politica) non era riconosciuta, anzi ghettizzata, ha comunque reso ancor più complicata la vicenda.

In fin dei conti chi avesse scritto canti della liturgia in Friulano tempo fa sarebbe stato visto come un nostalgico un po’ “fuorilegge”, magari osservato con ironica sufficienza. Ora, invece, il rischio è di essere di maniera, spinti a produrre solo dal momento di euforia e si è comunque guardati dal solito musicista benpensante con la solita ironica sufficienza. Fatto sta che dalla lingua latina, usata fino a quando il sottoscritto era fanciullo, si è passati all’Italiano; e, soprattutto dopo il terremoto, più o meno consenziente la Curia Arcivescovile, si è passati ai primi esperimenti di officiatura in Friulano. Solo da qualche anno tutto è stato, finalmente, regolarizzato.

Ovviamente anche nella stessa liturgia in Friulano qualcuno potrebbe rilevare un atteggiamento di chiusura verso la comunitarietà implicita nel messaggio cristiano. Una serie di dubbi non indifferenti potrebbero assalire chi si avvicina in modo sbagliato all’uso dei dialetti, alle lingue dei pochi per cantare la liturgia; dubbi troppo articolati per essere risolti con frettolosa semplicità. Tutto ciò ha naturalmente pesato sul mio far musica sacra, nel pensare ad una messa cantata. Ma, come ho fatto per il canto profano, da sempre, ho solo cercato la via più sincera del canto di fede, la via più diretta che aspira alla spiritualità, la necessaria semplicità e l’immediatezza dell’atto della preghiera fatta nella lingua che ci ha accompagnato fin dalla culla.

Ho scritto dunque una messa in Friulano: la Messe di Madins. Il titolo evoca la messa che, nella tradizione più antica, è quella della notte di Natale. Il termine “Madins” si rifà espressamente all’ufficio del mattutino ma in Friuli lo si associa fin dall’antichità, specificamente, alla notte di Natale. Posso dire che la Messe di Madins è nata tutta d’un fiato, con sincera spontaneità, con convinta ricerca della semplicità: la mia Messa ha voluto unicamente essere un invito ad unirsi al canto. I canti dell’ordinario, che vi si succedono nel solito ordine, sono nati per coro virile a quattro voci, sullo stile dei canti popolari a cui molti si ostinano ad appiccicare l’etichetta di “canti di montagna”. Nella costruzione degli stessi ho cercato una struttura immediata, melodicamente ispirata e precisa, così come dovrebbero essere tutti i canti per la liturgia. Sono convinto che l’assemblea debba necessariamente unirsi al canto, ma lo possa fare soprattutto nella chiarezza del messaggio melodico.

Non ho mai avuto l’intenzione di produrre canti da concerto ma solo canti che potessero essere partecipati, imparati da tutti. Qualcosa è stato ottenuto in tal senso; ma, purtroppo, da molto tempo i canti della Messa vengono eseguiti soprattutto dai cori parrocchiali e poco dai fedeli. Già, perché tutto nasce dall’ormai poco sanabile incapacità al canto della gran massa dei fedeli italici. Certo è che, effettivamente, la gente canta spontaneamente poco e male e ancor meno in chiesa, almeno dalle mie parti. Sicuramente le scelte musicali sacre degli ultimi anni non sono state tra le migliori.

Forse la mancanza di attenti compositori e quindi di canti calibrati nella loro comunque necessaria semplicità ha ancor più allargato il solco tra il coretto esecutore e l’assemblea che ha scelto un difensivo mutismo. Forse, in una situazione di cronica ignoranza musicale, dopo i canti che si facevano fino agli anni ‘60, l’introduzione di strumenti e strumentini (anche a percussione) - ricordo la “Messa Beat” del ’65 - ha contribuito ad allontanare definitivamente l’assemblea dalla partecipazione attiva. Sono anche convinto che gli stessi strumenti e strumentini e strumentoni, così come hanno fatto nel mondo musicale profano, hanno allontanato e appannato il concetto di silenzio. E il silenzio è ascolto e l’ascolto è fede.

I canti eseguiti a cappella o con l’organo o l’armonium, calano l’esecutore in un momento di estrema concentrazione, altro può distrarre. Ricordiamo quanta serena contemplazione ci comunica il canto gregoriano. Non si tratta solo di suggestione collegata ad un’evocazione di un periodo storico. C’è dell’altro. Sono convinto che il gregoriano sia così elevato perché si avvicina, in un’assurda ma affascinante ipotesi, al silenzio. Col gregoriano siamo lontani anni luce dalla musica attuale che, chissà perché, deve essere necessariamente frenetica, elettrica, fortissima, pesante. Sembra un discorso nostalgico il mio? Non vorrei. Cercare il silenzio è un atto nostalgico? Non lo posso credere.

Ma torniamo al discorso delle lingue minoritarie. Cosa c’entra in tutto questo il Friulano o il Patois valdostano o il nostro Resiano? C’entra, perché in un contesto come quello appena descritto, una lingua come il Friulano, una lingua minoritaria, è relegata in un’umilissima nicchia. E la cosa dispiace perché sono i Friulani stessi a crederci poco.

È un po’ comico il fatto che, quando la Chiesa ha finalmente ammesso l’uso delle lingue locali, la musica “di moda” ha necessariamente ricusato le particolarità linguistiche, assecondando asfissianti globalizzazioni. Una situazione alquanto bizzarra che, nel nostro tempo, è ben lontana dal trovare un equilibrio. Poco ci manca che qualcuno, dopo le schitarrate, proponga l’Inglese anche per i canti sacri.

E’ significativo anche il fatto che in Friuli ci siano molti cantautori con la chitarra in mano a cantar storie, spesso anche carine, in Friulano, ma su ritmi rocheggianti o leggeri. È una cosa senza senso, una triste brutta copia di un mondo che non ci appartiene, un uso della nostra antica lingua, improbabile e improprio. Sarebbe come se qualcuno si mettesse a fare il rock con testi in latino. Perché dico questo? Secondo me l’uso più appropriato di una parlata locale deve avere un’attinenza con un certo tipo di musica. Certo si può far tutto e provare di tutto. Ma la lingua evoca un mondo, evoca una situazione che ha connotazioni ben precise. La lingua dovrebbe essere elemento di avvicinamento al canto sacro e al conseguente fine di preghiera.

In Friuli ci sono innumerevoli chiesette votive custodite nella fragile silenziosità della campagna. Chiese piccole, come una stanza di una piccola casa, dove da secoli sono custoditi poveri tesori: statuette di legno, affreschi incerti, pietre incise che riportano date lontanissime. Attraverso esse è passata la mia ispirazione per i canti di fede. Sono convinto che, almeno per quanto riguarda la mia terra, il canto della fede e della liturgia debba passare da lì, debba assorbire la risonanza antica che ancora vibra fra quei muri che ricordano il luogo più vissuto e più pregno di storia familiare delle case friulane: il fogolâr.

La lingua friulana, la lingua di casa è necessariamente legata al passato, ma solo attraverso il filtro di una conoscenza del vissuto sociale della mia terra si può intuire fino in fondo la lingua e si può e si deve giustificare, anzi accogliere, una liturgia in lingua. Ascoltate:

Signor, l’omp ‘l è ca, vô o saveis ce che i puès coventâ ta chest mont e ta che latri: jo no us dîs nujatri. (Signore, l'uomo è qui, / voi sapete cosa gli può servire / in questo mondo e nell'altro: / io non dico nient'altro.)

In questi versi c’è tutto l’antico mondo contadino, la rassegnata ma serena convinzione di essere strumenti di Dio in terra, l’umiltà più profonda, l’accettazione di quanto la vita e poi la morte ci riservano. Il contadino era quel che poteva ma era cosciente che non poteva esserci pretenziosità di fronte all’ignoto, di fronte alla potenza divina. Se facessimo il parallelo con l’attuale palese arroganza delle nostre società, è di qui che passa il mio invito al canto. I canti della Messa ne sono diretta, ovvia conseguenza. Sono volutamente semplici e facili da memorizzare. La struttura del linguaggio musicale che uso è volutamente e strettamente tonale e rigorosa nella forma. E mi chiedo come si faccia a cantare la fede se non con umile semplicità melodica, se non con l’intonata vocalità di una sapienza smarrita.