Un cronista del tempo ci racconta. (...) “Un giovane aspirante ufficiale ha appena scritto alla sua ragazza una lettera amara e terribile, che la censura fa ancora in tempo ad intercettare. ”Maledetta la guerra, maledetto chi la pensò, maledetto chi per primo la gridò. Sono stanco di questa schiavitù militare, di questa ubbidienza umiliante e misera, stomacato dagli abusi che si commettono sotto l’ipocrita spoglia della disciplina. Avevo un alto concetto della vita militare prima della guerra, credevo ci fosse tutta gente compita, invece…
Nelle prime ore del 24 ottobre un enorme cartello continua a sbarrare, lungo l’Isonzo, la strada di Caporetto. C’è sempre scritto, grande come la pubblicità di Ferro China Bisleri, un perentorio «Alt! Taglio capelli». Ma i soldati non si fermano. Non capiscono l’italiano. Hanno la divisa grigia e i capelli biondi.
Il 24 ottobre del 17 i telefoni scottano: il disastro corre sul filo. E quando all’apparecchio, invece della solita voce del lavativo milanese una completamente nuova, con inconfondibile accento tedesco chiede con aria di sfottere: «Pronto, parlo con l’Italia» allora si capisce che dopo la nebbiolina della conca di Plezzo impestata di acido cianidrico anche la brigata Friuli aveva pagato il suo prezzo. Ma gli uomini di von Below non si fermano neanche qui. Inseguono gli italiani verso la valle del Natisone. Alle 18 arrivano a Staro Selo, la Sella di Caporetto. E alle 22 sono a Robic e a Creda. …Intanto a Saga il comandante della 50. divisione, il generale Arrighi, ha deciso che ha già resistito abbastanza. Ordina la ritirata attraverso la valle di Uccea, regalando al nemico la sua posizione strategica e con essa l’intero fondovalle”.
Il panico dilaga e nelle case si sviluppò la confusione che precede le grandi decisioni. Così sui due piedi si decise di lasciare quei luoghi cari per sfuggire alle ritorsioni dei vincitori. Era assurdo immaginare di portarsi dietro bagaglio pesante anche se qualcuno partiva portandosi mucche e capre al seguito. Il trenino a scartamento ridotto che da Gemona andava a Casarsa si poteva ancora prendere.
Carlo Sgorlon ci racconta che ”… Così cominciò la fuga alla leggera, sotto una pioggia battente, insinuante, irresistibile, che nessuno di coloro che vissero la rotta di Caporetto avrebbe mai dimenticato per tutta la vita. Le strade pantanose erano percorse da povera gente che conosceva solo la prima tappa della propria fuga. Tutto era nascosto nel tascapane misterioso del destino. … Il trenino partì, e non pareva più un treno, ma piuttosto un carrozzone di zingari, stracarico di persone. Oltrepassò il ponte di Pinzano, dove il Tagliamento è ancora un fiume di latitudine modesta. Tutti sul treno parlavano delle stesse cose, gli austriaci, le bombe, il ponte di Pinzano, la fuga, la profuganza. Sette giorni durò il viaggio di mia madre e della sua famiglia verso Firenze”.
Anche tre quarti della popolazione resiana abbandonò le proprie case e scappò da quella nefasta realtà. Scappare, fuggire, andarsene da quelle rovine e da quella distruzione; chi in Toscana, chi in Umbria, chi in Piemonte, chi in Lombardia, chi in Campania tutti fuggiaschi e raminghi sparsi nelle regioni Italiane. Città della Pieve, Valgreghentino, Voghera, Castellamonte erano le nuove città dove furono spedite le famiglie.
Così in un giorno di marzo del 2004, per mantener fede ad una promessa fatta a mia madre, presi un trenino da Caserta per andare a visitare il suo paese natale. Piedimonte d’Alife, disse ad un certo punto il conduttore, fine corsa. Durante il tragitto, osservando quei nuovi luoghi, la mia mente cercava di ripercorrere i pensieri, le preoccupazioni e le paure di coloro che per la prima volta avevano dovuto abbandonare gli amati luoghi natii per ritrovarsi in un posto così lontano e misterioso. La cittadina mi parve immediatamente simpatica. Una bella grande città a ridosso di un anfiteatro montuoso. Sembrava quasi di essere a Tarcento o ad Artegna. Vagando per le strade alla ricerca della chiesa di san Marcellino, luogo sacro in cui mia madre fu battezzata, notai, con grande sorpresa, su un vecchio manifesto di commemorazione dei caduti per il 4 novembre dell’anno precedente, il nominativo del presidente dell’associazione dei combattenti e reduci di quella realtà; Stefano Micelli. Perdinci, mi dissi, questo è il nome del “non (padrino) di mia madre. Ricordavo, infatti, che alcuni anno addietro, riordinando i documenti di famiglia avevo notato quel nome sul certificato di nascita rilasciato da quella parrocchia. Il giorno stesso, recatomi all’anagrafe comunale, mi informai sulla persona che avrei certamente preso contatto in seguito. E così dopo alcuni giorni mi misi in contatto con il sig. Stefano Micelli, figlio di Francesco (26.05.1920) e di Maria Lupoli, nipote di Stefano Micelli nato a Resia il 20.10.1847 e di Di Floriano Maria nata a Resia il 24.04.1854.
I nonni dell’attuale presidente dell’associazione combattenti e reduci del comune di Piedimonte Matese (cosi si chiama attualmente il comune) non fecero più ritorno a Resia. Si fermarono in Campania dove decisero di scordare gli orrori di quella infausta guerra senza mai dimenticare i cari luoghi natii.
Sergio Chinese