Il rumore della ferraglia che corre sui binari martella oramai da tre giorni il cervello dell’alpino. I suoi occhi, tra sbuffi di fumo, vedono solo pianura e lontane cime con l’ultima neve di primavera. Quando il frastuono si fa sordo significa che il treno sta passando sul ponte di uno dei grandi corsi che solcano la piana dell’antico fiume Eridano. Adda, Oglio, Ticino e poi Adige, Brenta , Piave e Tagliamento ed il convoglio punta verso i monti. Dapprima le alture sono dipinte di un timido verde poi il bianco della neve si confonde con l’azzurro del cielo e si entra nelle Alpi Giulie. Il freni stridono ed i macchinisti fermano il treno ad una piccola stazione alla confluenza di due valli. Il borgo è ordinato e incorniciato dai rettangoli di terra coltivata che danno da vivere ai suoi abitanti.
Gli alpini scendono dai vagoni e la momentanea confusione viene ben presto interrotta da ordini secchi e precisi degli ufficiali. Il reparto viene inquadrato e sistemato in ordine di marcia. Per plotoni le compagnie iniziano il trasferimento, naturalmente a piedi. L’alpino ora sente il profumo dell’aria pulita e dimentica l’odore del carbone bruciato nella caldaia della locomotiva mentre nelle sue orecchie entra il ritmo cadenzato delle scarpe chiodate di dieci, cento suoi simili. La lunga colonna sale la mulattiera in mezzo a pinete e dopo un’ora transita davanti ad una postazione di artiglieria. Sono sistemati i quattro cannoni da 75 mm della batteria del monte Staulizze ed è il primo segnale che ricorda all’alpino il motivo della sua presenza in questo angolo delle alpi. Il reparto prosegue e sosta agli stavoli di Ruschis. I boschi sono curati dalla mano dell’uomo e ogni metro di terreno viene sfruttato a pascolo o a coltivazione. Il giallo del fiore di tarassaco annuncia l’arrivo della bella stagione come il canto del cuculo che scende da Plagna. Agli stavoli pochi anziani e qualche donna iniziano i primi lavori di primavera. Alcuni ragazzini, presi da naturale curiosità, corrono verso la colonna in marcia. Parlano una lingua tanto incomprensibile quanto basta a far pensare all’alpino di esser entrato in una terra straniera prima ancora di iniziare una guerra. Ora la mulattiera si snoda lungo la catena displuviale tra il Canal del Ferro e la Val Resia. La marcia prosegue fino a Sella Sagata dove una seconda batteria di cannoni rinnova il monito agli alpini. L’acqua fresca del torrente Brussin disseta i soldati che poi continuano a camminare attraverso il bosco alla volta del tornante di Cöpe disseminato di trincee. Dopo solo qualche rampa il profumo del bosco lascia il posto ad una follata di putrido vento gelido che, come uno schiaffo improvviso, percuote le narici in vista del pianoro di Ćänytaua. Una piccola radura disseminata di croci. Freschi tumuli di terra smossa, ingentilita con qualche raffazzonato mazzo di rododendro, innalzato per dare una degna sepoltura agli eroici giovanotti che su quei monti hanno donato, per la causa italiana, la loro tenera vita. Poco lontano si sentono i lamenti dei soldati feriti provenienti dalla prima linea e curati nell’angusto riparo di sasso adibito ad ospedale da campo sotto il Tulste Uar. Cima montuosa alle spalle di Prato intrisa di sudore, fatica e sangue; ambito punto strategico di osservazione da dove poter controllare ogni movimento nella valle di Resia e del Fella giù, giù fino a Moggio e oltre. Avanti non c’è tempo da perdere bisogna raggiungere le postazioni sul fronte e dare il cambio a chi per troppo tempo è lassù. Ma in un rio approfittando della sosta per abbeverare i muli qualcuno decide di lasciare un segno indelebile incidendo su una pietra il nome del reggimento alpini in transito verso Pust Gost. L’altopiano, molto ampio, è immerso nel primo verde delle faggete. Quella che da Resiutta sembrava una cima lontana ora diventa imponente mentre i paesi a fondovalle sono rimpiccioliti. Il Canin ora è proprio davanti agli occhi dell’alpino ed è là ch’egli sta andando a vivere e combattere. La mulattiera s’inerpica, il verde del faggio si trasforma e lascia posto al pino mugo ed a qualche sporadico larice. Adesso la fatica si fa sentire anche nelle gambe di chi ha vent’anni. L’ultimo sforzo e la Compagnia arriva a Sella Labuia. Sopra una cresta affilata, in posizione alquanto ardita, c’è un’altra batteria di cannoni ed alla sella invece domina una costruzione fuori misura . Il nome “Regina Margherita”suona dolce come il riposo che si è meritato l’alpino. Il sole affresca di effimero color rosa la Canina Alpe ed i soldati si apprestano a passare la notte nel grande rifugio. Ia mattina seguente il sonno del soldato viene malamente interrotto dalla voce del sergente. Sveglia, zaino e “91” in spalla si riparte. Il sentiero ora si snoda e taglia in mezzo i prati quasi verticali della cresta Indrinizza. I canaloni sono ancora carichi di neve e dopo una breve salita si fa vedere il maestoso versante meridionale del Sart. All’occhio del alpino poi si presenta un paesaggio quasi lunare, dopo Sella Grubia, una distesa di roccia mista a neve sembra non avere fine: il Foran dal Muss. Dall’altra parte della valle, sopra l’altipiano svetta la stupenda mole del Jof di Montasio. La colonna fa una sosta al nuovo ricovero di Sella Canin, sotto di loro si apre l’ampio vallone del Prevala immerso nella neve. La marcia prosegue verso Sella Prevala. Reticolati e muri a secco, caverne e baraccamenti sono segnale che al valico si vive e la guerra è molto più vicina. Gli alpini continuano il movimento in marcia. Un paio di ore attraversata sopra il Pian delle Lope, sotto il Cergnala, la Cima Confine e la fila in grigioverde arriva a destinazione: Sella Robon. Zaino a terra e dopo la fatica arriva la fame e la sete. Il calcare del Canin si beve tutta l’acqua e la restituisce mille metri più in basso ed allora si scioglie un po’di neve nella gavetta. Le salmerie non sono ancora arrivate e lo sguardo dell’alpino si perde verso lo Jof Fuart mentre un paio di grammi di tabacco avvolto in una cartina lo aiutano a pensare ad altro. L’impero degli Asburgo è dall’altra parte. Un centinaio di metri dall’alpino c’è un uomo come lui che indossa una divisa dal colore diverso e parla un’altra lingua. Anch’egli è sceso da un treno, probabilmente a Tarvisio, ed è salito per la Seebach per Predil fino al Deutsche Kanzel . Anche lui, come l’alpino, è arrivato fin lassù per lo stesso motivo. E lì si sta inchiodati uno di fronte all’altro per un tempo indefinito che non trascorre mai. Solo allora, forse per farsi coraggio, per ricordare la vita agiata e il ricordo della giovinezza spensierata, qualcuno sommessamente intona una timida canzone:
“Non ti ricordi quel mese d’aprile, quel lungo treno che andava al confine, ... E poi altre strofe, altri contributi dei soldati di trincea improvvisati poeti ...dopo tre giorni di strada ferrata, ed altri due di lungo cammino, siamo arrivati sul Monte Canino … Se avete fame guardate lontano, se avete sete la tazza ... la neve ci sarà.
Lorenzo Barbarino