Uno schema impregnato di cultura etnocentrica e fatto proprio da alcuni importanti settori dell'élite politica e intellettuale slovena (ma anche croata) nel corso dei decenni. All'interno di questa visione, la Venezia Giulia è privata di una sua autonomia storica poiché la si fa risalire a un'invenzione geografico-amministrativa del nazionalismo italiano; dopo la fine della Prima guerra mondiale, l'Italia avrebbe occupato e annesso un territorio etnico sloveno/croato non suo, e non solo per ciò che concerne quelle porzioni abitate nella maggioranza o nella totalità dalle popolazioni slovene e croate, ma nella sua interezza, anche là dove le genti da sempre si mischiano o dove la componente italiana è (o era) presente storicamente in maniera preponderante. Un efficace esempio al riguardo viene offerto proprio dalle righe del documento governativo sloveno dedicate alla costa istriana nordoccidentale, oggi parte della Slovenia: una fascia costiera considerata "territorio etnico" che nel 1947 sarebbe stato riunificato alla madrepatria slovena. Questo impianto di derivazione etnografica ha una serie di ricadute, che immancabilmente fanno seguito all'enunciazione principale dell'appartenenza etnica di queste regioni alla Slovenia (o Croazia, o prima la Jugoslavia). Se la Venezia Giulia è un'entità inventata apposta per occultare o modificare il carattere etnico originario sloveno-croato di queste terre, gli italiani che vi abitano diventano automaticamente o degli intrusi, immigrati o importati secondo un disegno espansionista prestabilito, oppure degli slavi "etnici" assimilati, italianizzatisi nella modernità. Un esempio fra i tanti possibili, il grande musicista piranese Tartini che diventa espressione del genio musicale sloveno. Nel caso migliore, viene riconosciuta la condizione di minoranza irrilevante e subordinata come ci insegna la storia dei "rimasti" dopo l'esodo di massa nel secondo dopoguerra. C'è al fondo una visione costantemente rivendicazionista della storia: considerare etnicamente slovene Capodistria, Isola e Pirano - le cui popolazioni di antica cultura istriano-veneta sono state costrette a una fuga di massa che ha letteralmente svuotato le loro città - la dice lunga sul peso che per decenni settori delle classi dirigenti politiche e intellettuali slovene hanno assegnato disinvoltamente alla categoria di "territorio etnico": alla ricerca di una forzata omogeneità tra "etnia" e Stato che ha prodotto qui e in altre parti alterazioni profonde e irreversibili all'originale tessuto plurale delle nostre regioni (per il caso della Stiria meridionale, si veda lo splendido libro di Martin Pollack Il morto nel Bunker).Questa interpretazione generale, in molti casi implicita e nel documento esplicitata con tanta leggerezza diplomatica, ha per di più alimentato in tutti i decenni di vita repubblicana una vena nociva nel tessuto civile di Trieste, e cioè la preesistente diffidenza e ostilità verso gli sloveni, contribuendo a rafforzare di riflesso il nazionalismo italiano. E non parlo tanto dei gruppi della destra radicale nostalgica e funeraria, ma dell'orientamento politico-culturale diffuso e del senso comune di una larga parte di cittadinanza triestina. Pertanto risulta davvero incomprensibile e quasi autolesionista che si rilancino oggi interpretazioni simili, salvo che non si tratti di un tentativo più o meno studiato di alimentare tensioni nazionali in queste regioni, nella speranza di trovare a Trieste ambienti interessati o sprovveduti al punto da voler rispondere nei medesimi toni. Ma ormai la Trieste di Illy e Dipiazza non è più la città rancorosa e ferita che era ancora vent'anni fa. In definitiva, il documento governativo sloveno esprime tratti culturali che da ambedue le parti non bisogna esitare a considerare fuori luogo e fuori tempo, visioni unilaterali e artificiose della storia che danneggiano lo sviluppo integrato delle regioni dalle valli del Natisone alle coste dalmate: sviluppo che non può che basarsi sulla valorizzazione a trecentosessanta gradi di tutte le culture e le esperienze storicamente presenti qui. Basata sull'anacronistica e ascientifica categoria dell'etnonazionalismo, l'ottica che ispira la parte finale del documento fa a pugni con l'evidenza empirica percepita dalla generalità della gente di qua e di là dell'ex confine, e con il patrimonio di sensibilità democratica ormai sempre più dato per scontato dai cittadini italiani e sloveni.
Stelio Spadaro
Nel documento redatto al termine del mandato di presidenza UE appena trascorso, (gennaio 2008-giugno 2008) il governo sloveno, sul proprio sito ufficiale, ha pubblicato una minuziosa relazione su quanto svolto durante questo periodo. Un capitolo a parte è stato riservato anche al Comitato delle regioni dove in calce si trova una breve sinossi storica della Slovenia. Ed è qui che tocca sottolineare due macroscopici e consapevoli errori: quando si arriva al 1918, alla fine della Prima guerra mondiale, nel sito si legge: «Fine della Prima guerra mondiale. A seguito della dissoluzione dell'impero austro-ungarico il territorio etnico della Slovenia è diviso tra l'Austria, l'Italia, l'Ungheria e il Regno dei serbi, croati e sloveni». Anche se cronologicamente ed istituzionalmente non è possibile eccepire nulla, emerge una connotazione etnica del caso che il governo sloveno vuole evidenziare. Segue l'interpretazione falsa nella sua evidenza riferita al 15 settembre del 1947. Scrive il sito dell'esecutivo di Lubiana: «La maggior parte della regione costiera del Litorale viene riunificata alla Slovenia a seguito del Trattato di pace di Parigi».Ora, la Slovenia, nel 1947, era una repubblica della Jugoslavia e non aveva una sua indipendenza istituzionale internazionale; i territori del Litorale, come è noto, divennero jugoslavi nell'ambito della Repubblica di Slovenia solo nel 1975 dopo la firma del Trattato di Osimo. Prima c'era la cosiddetta Zona B sotto amministrazione jugoslava che qui viene saltata in un sol passo. Il riferimento etnico non può risultare indifferente quando si vuole dimenticare che in questi territori plurali c'era anche un altro popolo, quello degli italiani che per tanti secoli ne hanno fatto parte integrante e in certe zone, come appunto a Capodistria, Isola e Pirano, erano la stragrande maggioranza anche nei censimenti fatti dall'Austria e sicuramente fino al 1954, quando ci fu l'Esodo di massa da quelle località. In questo contesto sorge il dubbio che si voglia mettere in discussione, o rimuovere completamente, realtà di fatto come l'esodo e le foibe: infatti se tale costa istriana diventa ”territorio etnico sloveno” come recita il Documento, gli italiani di quei luoghi risultano ”occupanti” o ”immigrati”, per cui anche la storia dei soprusi e delle violenze (foibe e esodo) assume un'altra luce e giustificazione. In poche parole, non è ”gradevole” che ci si dimentichi della presenza degli altri, ma è inquietante che lo si faccia anche quando la storia riporti ad una presenza maggioritaria autoctona, come è il caso di quel litorale istriano e lo ha recentemente ben scritto sulle pagine del quotidiano Il Piccolo Paolo Segatti «... sconcerta che un governo di un paese dell'Unione faccia finta di dimenticare i complessi passaggi giuridici che hanno governato il trasferimento di sovranità dall'Italia alla Jugoslavia di Capodistria, Pirano e Isola. È un modo di fare storia nazionale come dire, un po' spiccio, alla sovietica. Poi, a ben vedere, nel 1947 ”la gran parte del litorale” non venne affatto ”ri-unificata alla Slovenia”, perché prima della seconda guerra mondiale la Slovenia non era un ente dotato di suoi confini politici o amministrativi, né lo era prima della prima guerra mondiale. La frase ha senso se chi l'ha scritta per Slovenia intendeva dire territorio etnicamente sloveno».Più avanti nello stesso quotidiano un'altra riflessione viene da Mauro Manzin, che sullo stesso tema scrive: «Non bisogna dimenticare che proprio per evitare questi ”scivoloni” fu istituita una Commissione mista di storici italo-sloveni che dopo anni di tormentato lavoro riuscì - come dice Manzin - a partorire una dichiarazione comune su una storia condivisa di queste regioni. E in quel documento errori di questo genere certo non ci sono. Non dimentichiamo che la Slovenia, nonostante il periodo estivo, è già in piena campagna elettorale (le elezioni politiche si terranno il prossimo 21 settembre) e che il governo di centrodestra viene dato sconfitto dagli ultimi sondaggi dalla coalizione di centrosinistra guidata dal giovane e intraprendente leader Borut Pahor. Ma da qui a manipolare la storia ce ne vuole. Anzi, uno scivolone di questo genere rischia di diventare controproducente non fosse altro per lo scarso ”appeal” che crea nelle principali Cancellerie europee di cui proprio la Slovenia è stata a capo per sei mesi».Quindi, dopo un periodo per altri versi fruttuoso all'interno dei tracciati di Bruxelles, la Slovenia lascia il suo scranno facendo percepire un clima non positivo, che stride con quanto fino a qui è stato costruito proprio da chi l'Unione europea l'ha voluta e ha contribuito a mantenerla salda nei suoi principi fondatori di pacificazione e di rispetto delle tante memorie che la compongono. Al riguardo una nota è stata inviata dalla Federazione degli esuli istriani, fiumani e dalmati al Ministro degli Esteri Franco Frattini per richiamare la sua attenzione su alcuni passaggi particolarmente scorretti del documento sloveno stesso.
Renzo Codarin (Presidente della Federazione degli esuli)
Vi ha visto l'ancoraggio migliore per il consolidamento della sua democrazia e la promozione dello sviluppo economico del paese. I suoi governi sono stati i più solleciti nel rispondere alle richieste dell'Unione e rispetto a quelli dei paesi dell'Europa orientale le posizioni apertamente euroscettiche sono state sempre in minoranza. Per di più la Slovenia sino ad oggi ha evitato le derive apertamente nazionalistiche che hanno segnato negli anni altri paesi del blocco ex sovietico. La sua classe dirigente si è adeguata velocemente al Brussels consensus, l'insieme di regole formali ed informali, di modi di esprimersi e di comportarsi che definisce una sorta di orizzonte culturale minimo condiviso dai partner europei, almeno di quelli che fanno parte dell'Unione da lunga data. Per capirci, tutto il contrario del governo Berlusconi, il quale, come si è visto in tema di immigrazione, non pare in grado di anticipare il punto di vista europeo su quello che si può fare e quello che non si può fare.E per evitare incomprensioni adotta l'anomala, e imbarazzante, procedura di chiedere alla Commissione un parere preventivo sulle sue iniziative legislative. Invece la classe dirigente slovena sa come muoversi nel club europeo, senza per altro rinunciare mai ai suoi interessi. Lo si è visto a proposito della vicenda delle esose vignette autostradali. Lo si vede in merito alla politica regionale. Secondo un recente documento di sintesi delle attività del semestre sloveno che riporta anche un'intervista del primo ministro Jansa, la regionalizzazione della Slovenia è una delle priorità del governo di Lubiana. Ma, appunto, regionalizzazione nel quadro delle politiche di coesione nazionale. Non certo per adeguare l'ordinamento sloveno all'istituzione di Euroregioni che non vengono nemmeno menzionate. La qual cosa meraviglia non poco se si pone a confronto il silenzio sloveno con la quantità di parole che al di qua del confine vengono spese sull'Euroregione. La Slovenia è dunque un buon esempio del complicato rapporto che si è instaurato tra stati sovrani e processo di integrazione europea.Da una parte cessione di quote di sovranità (la moneta , i confini). Ma dall'altra autonomia nella definizione e perseguimento degli interessi nazionali (se si è capaci). Ma allora la Slovenia è un esempio riuscito di integrazione europea? Sì certamente, se il successo di integrazione europea lo misuriamo sulla base degli adempimenti procedurali, dell'implementazione delle politiche comunitarie, dell'adesione al senso comune che si respira a Bruxelles. Il che non è affatto poco. Tuttavia i conti non tornano se adottiamo come criterio le aspettative dei padri fondatori per i quali integrazione europea significava anche due altre cose: fare i conti con le memorie divise d'Europa e sradicare dal dibattito pubblico ogni tentazione irredentistica. Un caso recente ci fa capire dove stia il problema con la Slovenia. Nello stesso documento di sintesi del semestre europeo, pubblicato a cura del Comitato e sottoscritto dalla Presidenza Slovena, compare un paginetta di presentazione di cosa sia oggi la Slovenia e delle tappe fondamentali della sua storia nazionale. Un dettaglio. Ma i dettagli sono sempre eloquenti. In questo caso il dettaglio è eloquente di come il governo sloveno, non lo storico o l'opinionista tal dei tali, interpreta la storia nazionale.Due sono i punti cruciali. In relazione alla data fatidica del 1918 si dice che in seguito alla dissoluzione dell'Impero Austro-Ungarico, «il territorio etnicamente sloveno è diviso tra Austria, Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni». Il tono è descrittivo. Ma colpisce la persistenza del concetto etnografico di territorio etnico. Buono per descrivere gli aggregati umani precedenti la formazione dei moderni stati territoriali. Di dubbia utilità per definire i confini nazionali e statali in territori palesemente plurali. Comunque sono affari del governo sloveno se ritiene utile nel 2008 descrivere ancora la nazione slovena in termini etnografici. Sono affari in parte anche nostri, invece, se alla data del 15 settembre 1947 si dice che «la gran parte della costa adriatica del Litorale viene riunificata alla Slovenia per effetto del Trattato di Pace di Parigi». Sono affari nostri perché evidentemente la nostra memoria di quei giorni è molto diversa. Ma non è questo l'aspetto più grave. Non è una scoperta che in un territorio plurale le memorie possono essere diverse. Anche se a più di sessanta anni dai fatti e all'ombra dell'Europa sarebbe ragionevole attendersi da parte dei nostri vicini una maggiore sensibilità alle buone ragioni degli altri, oltre che alle proprie. Qualcosa di simile a quello che fece l'ottobre scorso l'ex-ministro della difesa Parisi a Caporetto parlando delle conseguenze della prima guerra mondiale.Gli aspetti gravi sono invece i seguenti. Anzittutto sconcerta che un governo di un paese dell'Unione faccia finta di dimenticare i complessi passaggi giuridici che hanno governato il trasferimento di sovranità dall'Italia alla Jugoslavia di Capodistria, Pirano e Isola. È un modo di fare storia nazionale come dire, un po' spiccio, alla sovietica. Poi, a ben vedere, nel 1947 ”la gran parte del litorale” non venne affatto ”ri-unificata alla Slovenia”, perché prima della seconda guerra mondiale la Slovenia non era un ente dotato di suoi confini politici o amministrativi, né lo era prima della prima guerra mondiale. La frase ha senso se chi l'ha scritta per Slovenia intendeva dire territorio etnicamente sloveno. Ma in questo modo tra la nozione di territorio etnico sloveno e quella di Slovenia come ente politico-amministrativo si instaura una confusione semantica, che ha una preoccupante valenza politica. Perché i confini dello spazio etnico sloveno sembrano venire interpretati come una costante nei flussi e riflussi della storia, mentre i confini dello stato sloveno come una variabile. Questi ultimi possono venire addirittura rimossi come accadde pochi mesi fa. Mentre i primi rimangono ben presenti nelle aspirazioni della classe dirigente slovena. E allora se si parla , come il testo del governo parla, di ”gran parte” è ovvia una domanda. Quali aree del Litorale non vennero ri-unificate alla Slovenia nel 1947? Cosa manca per il governo sloveno? Ognuno può sbizzarrirsi a rispondere secondo il livello di malizia di cui è vittima. Rimane il fatto che questo modo di presentare la propria storia nazionale da parte del governo sloveno non è esattamente quello che auspicavano i padri fondatori dell'integrazione europea. Forse i loro erano poco più di sogni. Ma sogni che hanno suggerito cosa fare e non fare per superare i conflitti nazionali e le loro premesse culturali. Se è questo l'obiettivo, essere i primi della classe a Bruxelles temo non sia sufficiente.
Paolo Segatti
«Parlare della ricongiunzione della maggior parte della Primorska alla Slovenia in forza al Trattato di pace di Parigi è storicamente esatto e politicamente corretto». È quanto sostiene il Console generale di Slovenia a Trieste, Joze Susmelj, in relazione al dibattito che si è aperto, sul nostro giornale, in merito alla nota comparsa sul sito web ufficiale del governo della repubblica slovena nelle scorse settimane. Susmelj, citando gli interventi suscitati dalla lettura storica di una delle pagine più complesse della vicenda legata al confine orientale, si sofferma sul termine «Primorska» e sui problemi di traduzione di una denominazione geografica molto particolare. Il console si riallaccia direttamente al titolo della nota sul sito internet per inquadrare l’argomento e il capitolo oggetto di contesa storica. Il titolo, preceduto da una data, quella del 15 settembre 1947, suona molto esplicito: «Ricongiunzione della maggior parte della Primorska con la Slovenia in base al Trattato di pace di Parigi».Che cosa si intende per «Primorska»? Susmelj non ha dubbi. «Il termine Primorska tradotto con “regione costiera del Litorale” non è corretto, essendo la Primorska una denominazione geografica di un’area ben definita». «L’obiezione - sostiene il console di Slovenia a Trieste - è basata sul fatto, peraltro incontrovertibile, che il Trattato di pace divise il Territorio Libero di Trieste in due zone, affidando l’amministrazione della Zona A alle forze alleate (alle quali nel 1954 subentrò l’Amministrazione italiana), e l’amministrazione della Zona B alla Jugoslavia. Il confine divenne definitivo soltanto con gli Accordi di Osimo nel 1975».Nella nota inviata dagli uffici consolari sloveni a Trieste molto si insiste sull’aspetto geografico legato alla questione storica e al termine attorno al quale studiosi, politici e giornalisti hanno ancorato i loro giudizi. Susmelj abbozza una sintesi: «Fatto sta - dice - che con il Trattato di pace di Parigi venne annessa alla Slovenia, allora parte del sistema federale jugoslavo, la maggior parte della Primorska. La Primorska - ribadisce - è la denominazione geografica per un vasto territorio che da Bovec (Plezzo) scende fino al mare, comprendendo le Valli dell’Isonzo e del Vipacco, il Collio Sloveno, Nova Gorica con il circondario, il Carso con il suo retroterra e, appunto, i tre comuni costieri, ai quali si riferiscono i due autori, ma che della Primorska rappresentano una piccola parte. Parlare della ricongiunzione della maggior parte della Primorska alla Slovenia in forza al Trattato di pace di Parigi è quindi storicamente esatto e politicamente corretto. Essendo stato tutto il territorio sopra citato annesso all’Italia dopo la prima guerra mondiale, appare chiara anche la correttezza della dicitura che dopo il 1918 il territorio etnico sloveno era stato diviso tra più Stati, tra i quali appunto l’Italia».Il chiarimento del Consolato generale di Slovenia a Trieste giunge dopo i commenti e i dubbi sollevati da più parti sulla congruità storica della nota governativa apparsa sul sito di Lubiana. L’intervento non era passato inosservato anche per il fatto che era comparso al termine del semestre di presidenza slovena dell’Unione europea (gennaio-giugno 2008). In un articolo di Mauro Manzin si ricordava invece come «la Slovenia, nel 1947, non aveva una sua indipendenza istituzionale internazionale» e che «i territori del Litorale divennero jugoslavi nell’ambito della repubblica di Slovenia solo nel 1975 dopo la firma del Trattato di Osimo».Per lo studioso Paolo Segatti, sempre in merito alla data del 15 settembre 1947, emerge che «la nostra memoria di quei giorni è molto diversa». Quindi, si avvia alla conclusione del suo articolato intervento affermando che «questo modo di presentare la propria storia nazionale da parte del governo sloveno non è esattamente quello che auspicavano i padri fondatori dell’integrazione europea».Il presidente della Federazione degli esuli, Renzo Codarin, suggeriva infine che la storia «certamente non serve sia ”condivisa”, ma serve sia rispettosa delle memorie». Quindi, parlava di «connotazione etnica del caso che il governo sloveno vuole evidenziare» aggiungendo che «si vuole dimenticare che in questi territori plurali c’era anche un altro popolo, quello degli italiani».
A ben vedere, il sacrosanto diritto individuale a vedere preservata la lingua e cultura friulana viene fatto dipendere dal fatto di essere parte di una comunità etno-culturale. Il che rinvia a un apparente processo di de-istituzionalizzazione dei diritti individuali, anche di quelli di chi parla una lingua minoritaria. Apparente perché ciò che in realtà si vuole è che le istituzioni cambino segno. Da presidio dei diritti individuali si vuole divengano presidio di una particolare interpretazione dei diritti collettivi. In questo modo la tutela esterna della lingua minoritaria può agevolmente combinarsi con una restrizione interna dell'esercizio dei diritti individuali alla tutela. Restrizione perché solo l'appartenenza alla comunità, per come viene delimitata e definita da qualche autorità, garantisce l'esercizio dei diritti individuali. Si tratta di un modo di intendere le istituzioni che è giunto addirittura a sancire che l'esercizio di un diritto politico elementare, come quello di poter candidarsi per il Consiglio regionale in condizioni paritarie, debba sottostare nel caso di un cittadino italiano di nazionalità slovena all'interpretazione particolare che di questa forniscono i dirigenti di un partito etnico. L'articolo 28 al comma 2 della bozza di statuto attualmente in esame al Parlamento nazionale dispone che un seggio sia di fatto garantito al partito etnico sloveno. Come dire che uno sloveno che non condivide l'interpretazione esclusivista dell'identità slovena offerta dai dirigenti di questo partito e si candida in un partito multietnico ha meno chance di conquistare un seggio di un altro che la condivide. A me pare che con la proposta di legge sul friulano la coalizione composita che la sostiene voglia fare un esperimento di nazionalizzazione periferica. Fare come in Catalogna e nei Paesi Baschi è una intenzione più volte apertamente proclamata. Di fronte a ciò colpisce, o forse sarebbe meglio dire preoccupa, il disinteresse dell'opinione pubblica nazionale. Preoccupa non solo perché non si capisce perché in Friuli si debba fare come in Catalogna o nei Paesi Baschi. Preoccupa perché è possibile che se questo tema entrerà mai nell'agenda dell'opinione pubblica e della politica nazionale si rischi di buttar via anche il bambino con l'acqua sporca. Il bambino da proteggere è la tutela di una lingua minoritaria a rischio. L'acqua sporca da gettare è l'approccio seguito per preservare il patrimonio culturale costituito da una lingua come il friulano. Purtroppo separare il bambino dall'acqua sporca è impresa difficile in sé, come assicurare la tutela esterna di un diritto collettivo senza limitare i diritti individuali. A renderla però ancora più difficile è l'idea che le istituzioni non appartengono ai cittadini, ma ad una comunità etnica, per altro inventata. O come alcuni auspicano a una confederazione di comunità reciprocamente esclusive, rispetto alle quali non si comprende il destino di chi si sente solo italiano o italiano e… altro. La forza di questa idea sta nella sua (presunta) ovvietà. La ricerca di soluzioni liberali al pluralismo linguistico e nazionale che caratterizza il Friuli Venezia Giulia è ritenuta merce esotica. Pare proprio che quel che è accaduto negli anni Novanta dietro all'angolo abbia certamente commosso, ma fatto poco pensare. A rendere difficile l'impresa è infine una sorta di convinzione carsica, condivisa da settori esigui ma non marginali della classe dirigente friulana, giuliana e slovena, di destra come di sinistra, laica e religiosa, che tutto ciò che ha a che fare con l'Italia sia inventato o imposto con la forza, sempre posticcio, in definitiva estraneo alle "identità" profonde delle genti di queste terre. Non è forse un caso che nel dibattito di questi mesi ma non solo, e anche purtroppo nei recenti documenti della regione, non si parla mai di cittadinanza e molto raramente di Repubblica. È possibile che alla lunga siano proprio tali convinzioni come il più diffuso senso comune etnicista a cui attingono a rappresentare l'ostacolo maggiore alla tutela della lingua friulana. Perché è possibile che a una domanda di tutela etnicista l'opinione pubblica nazionale, se mai se ne occuperà, risponda con una risposta etnicista. Del resto anche ad Ovest del Tagliamento quanti hanno fiducia nelle istituzioni repubblicane e nelle loro capacità integrative?
Nel documento redatto al termine del mandato di presidenza UE appena trascorso, (gennaio 2008-giugno 2008) il governo sloveno, sul proprio sito ufficiale, ha pubblicato una minuziosa relazione su quanto svolto durante questo periodo. Un capitolo a parte è stato riservato anche al Comitato delle regioni dove in calce si trova una breve sinossi storica della Slovenia. Ed è qui che tocca sottolineare due macroscopici e consapevoli errori: quando si arriva al 1918, alla fine della Prima guerra mondiale, nel sito si legge: «Fine della Prima guerra mondiale. A seguito della dissoluzione dell'impero austro-ungarico il territorio etnico della Slovenia è diviso tra l'Austria, l'Italia, l'Ungheria e il Regno dei serbi, croati e sloveni». Anche se cronologicamente ed istituzionalmente non è possibile eccepire nulla, emerge una connotazione etnica del caso che il governo sloveno vuole evidenziare. Segue l'interpretazione falsa nella sua evidenza riferita al 15 settembre del 1947. Scrive il sito dell'esecutivo di Lubiana: «La maggior parte della regione costiera del Litorale viene riunificata alla Slovenia a seguito del Trattato di pace di Parigi».Ora, la Slovenia, nel 1947, era una repubblica della Jugoslavia e non aveva una sua indipendenza istituzionale internazionale; i territori del Litorale, come è noto, divennero jugoslavi nell'ambito della Repubblica di Slovenia solo nel 1975 dopo la firma del Trattato di Osimo. Prima c'era la cosiddetta Zona B sotto amministrazione jugoslava che qui viene saltata in un sol passo. Il riferimento etnico non può risultare indifferente quando si vuole dimenticare che in questi territori plurali c'era anche un altro popolo, quello degli italiani che per tanti secoli ne hanno fatto parte integrante e in certe zone, come appunto a Capodistria, Isola e Pirano, erano la stragrande maggioranza anche nei censimenti fatti dall'Austria e sicuramente fino al 1954, quando ci fu l'Esodo di massa da quelle località. In questo contesto sorge il dubbio che si voglia mettere in discussione, o rimuovere completamente, realtà di fatto come l'esodo e le foibe: infatti se tale costa istriana diventa ”territorio etnico sloveno” come recita il Documento, gli italiani di quei luoghi risultano ”occupanti” o ”immigrati”, per cui anche la storia dei soprusi e delle violenze (foibe e esodo) assume un'altra luce e giustificazione. In poche parole, non è ”gradevole” che ci si dimentichi della presenza degli altri, ma è inquietante che lo si faccia anche quando la storia riporti ad una presenza maggioritaria autoctona, come è il caso di quel litorale istriano e lo ha recentemente ben scritto sulle pagine del quotidiano Il Piccolo Paolo Segatti «... sconcerta che un governo di un paese dell'Unione faccia finta di dimenticare i complessi passaggi giuridici che hanno governato il trasferimento di sovranità dall'Italia alla Jugoslavia di Capodistria, Pirano e Isola. È un modo di fare storia nazionale come dire, un po' spiccio, alla sovietica. Poi, a ben vedere, nel 1947 ”la gran parte del litorale” non venne affatto ”ri-unificata alla Slovenia”, perché prima della seconda guerra mondiale la Slovenia non era un ente dotato di suoi confini politici o amministrativi, né lo era prima della prima guerra mondiale. La frase ha senso se chi l'ha scritta per Slovenia intendeva dire territorio etnicamente sloveno».Più avanti nello stesso quotidiano un'altra riflessione viene da Mauro Manzin, che sullo stesso tema scrive: «Non bisogna dimenticare che proprio per evitare questi ”scivoloni” fu istituita una Commissione mista di storici italo-sloveni che dopo anni di tormentato lavoro riuscì - come dice Manzin - a partorire una dichiarazione comune su una storia condivisa di queste regioni. E in quel documento errori di questo genere certo non ci sono. Non dimentichiamo che la Slovenia, nonostante il periodo estivo, è già in piena campagna elettorale (le elezioni politiche si terranno il prossimo 21 settembre) e che il governo di centrodestra viene dato sconfitto dagli ultimi sondaggi dalla coalizione di centrosinistra guidata dal giovane e intraprendente leader Borut Pahor. Ma da qui a manipolare la storia ce ne vuole. Anzi, uno scivolone di questo genere rischia di diventare controproducente non fosse altro per lo scarso ”appeal” che crea nelle principali Cancellerie europee di cui proprio la Slovenia è stata a capo per sei mesi».Quindi, dopo un periodo per altri versi fruttuoso all'interno dei tracciati di Bruxelles, la Slovenia lascia il suo scranno facendo percepire un clima non positivo, che stride con quanto fino a qui è stato costruito proprio da chi l'Unione europea l'ha voluta e ha contribuito a mantenerla salda nei suoi principi fondatori di pacificazione e di rispetto delle tante memorie che la compongono. Al riguardo una nota è stata inviata dalla Federazione degli esuli istriani, fiumani e dalmati al Ministro degli Esteri Franco Frattini per richiamare la sua attenzione su alcuni passaggi particolarmente scorretti del documento sloveno stesso.
Renzo Codarin (Presidente della Federazione degli esuli)
Lo strumento è già stato identificato. Ha ricevuto il placet anche del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano durate la sua visita di Stato a Lubiana, e si chiama «legge di tutela d’interesse permanente» che dovrebbe essere varata dal Parlamento italiano. Una norma che non solo garantisca sicurezza ai finanziamenti dell’Unione italiana, ma sia un riconoscimento morale di quanto svolto dai nostri connazionali in quelle terre dalla fine della Seconda guerra mondiale. «Per noi - sostiene il presidente della Giunta esecutiva dell’Ui, Maurizio Tremul rappresenterebbe un po’ come il riconoscimento della Giornata del ricordo per gli esuli». Una norma che garantisca altresì quella unitarietà che dopo l’indipendenza di Slovenia e Croazia si vede oggi ancor più minata dall’estensione dell’area Schengen lungo il fiume Dragogna.Dall’altra parte c’è il discorso di chi l’Istria è stato costretto a lasciarla. Gli esuli non si arrendono. Chiedono la revisione degli Accordi di Roma del 1983 che sono, in pratica, lo strumento attuativo del Trattato di Osimo del 1975. Che, si badi bene, anche per gli esuli non va toccato. Così come non si chiedono revisioni di confini. Insomma «pacta sunt servanda» come va da anni ripetendo il governo italiano qualsiasi sia il suo «colore». C’è, invece da ridiscutere la restituzione dei beni, ma soprattutto l’indennizzo.Il «vaso di Pandora» lo ha scoperchiato domenica il leader del Pd Piero Fassino che si è incontrato con i vertici dell’Ui a Fiume. Un incontro che nessuno ha letto in chiave elettoralistica. Nè Fassino, né tantomeno i vertici dell’Ui. La nostra minoranza in Istria non può essere strumentalizzata come «acchiappavoti». «L’impegno di Fassino, a prescidenre da quale sarà l’esito delle urne, - spiega il presidente dell’Ui, Furio Radin - è quello di realizzare quanto prima la legge di tutela permanente che sarà presentata alle Camere in un’azione fortemente bipartisan». E l’Ui non vuole perdere tempo. Sarà a breve creato un tavolo tecnico tra Ui e Farnesina per redigere materialmente il documento da presentare al Parlamento italiano». «Questo per noi - aggiunge - è il ”principe” di tutti i problemi perché altrimenti siamo costretti a difficili equilibrismi di lobbing con tutti i partiti politici italiani alla vigilia del varo di ogni legge Finanziaria». «Una legge che noi non vediamo solo nell’ottica dei finanziamenti, ma anche per lo sviluppo dell’editoria, della cultura, della scuola, una sorta di vera e propria legge quadro».«Credo che la legge d’interesse permanente abbia numerose importanti valenze - specifica invece Maurizio Tremul - per noi ha un grande valore morale perché riconosce il contributo che la nostra Comunità ha dato alla permanenza dell’identità e della lingua italiana in questi territori così come la legge sul Giorno del ricordo riconosce il contributo e il sacrificio degli esuli e della loro drammatica storia». Tremul guarda poi alle possibilità di sviluppo delle relazioni all’interno dell’area istriana nei processi integrativi europei e alle opportunità che offre, ad esempio, la cooperazione transfrontaliera con l’Obiettivo III dal 2007 al 2012 tra Slovenia, Italia e Croazia, cooperazione dove l’Unione deve avere un ruolo sempre più da protagonista. «In questo contesto - precisa Tremul - serve superare le difficoltà che oggi pone Schengen tra Slovenia e Croazia e che rischia di diventare un fattore di divisione della Comunità. La ricetta? L’ingresso e l’integrazione della Croazia nell’Ue. L’unitarietà della minoranza è un fattore vitale, unitarietà che viene adeguatamente espressa proprio dall’Unione italiana».Meno ottimismo, invece, dal versante degli esuli. I rappresentanti delle associazioni si lamentano: «Fin qui solo parole, ma niente fatti». «Di concreto io non ho visto niente - afferma il presidente dell’Unione degli istriani, Massimiliano Lacota». «L’unico punto di svolta - incalza - sta nella volontà del prossimo governo italiano di rimettere in discussione gli Accordi di Roma del 1983. Se l’Italia non fa questo noi non procediamo di un millimetro». Rinegoziazione che lo stesso ministro degli Esteri, Massimo D’Alema aveva annunciato nel gennaio scorso durante la sua visita a Lubiana. «Sì, ne ho parlato con lui - precisa Lacota - noi non vogliamo rimettere in discussione confini e trattati, ma gli Accordi di Roma sono stati palesemente violati, perché non si trova il modo per ritirare i dollari d’indennizzo versati da Lubiana in un conto fiduciario della Dredner Bank di Lussemburgo». Problemi anche sulle quote che unilateralmente Slovenia e Croazia hanno deciso di versare per arrivare ai 110 milioni di dollari sanciti proprio dagli Accordi di Roma e sottoscritti con l’allora governo jugoslavo. «Slovenia e Croazia anche per D’Alema - precisa Lacota - devono rivedere la questione delle quote lasciando fuori l’Italia». «Ma fin qui - conclude - non si è fatto niente. Si è aperto il tavolo congiunto governo-esuli voluto dal sottosegretario agli Interni, Ettore Rosato e presieduto da Enrico Letta. Una riunione. E poi il deserto».Fassino a Fiume ha, comunque parlato sia di indennizzi, sia di restituzione dei beni da trattare con Slovenia e Croazia a partire dal 2009, pacatamente e senza toni troppo accesi. «Fassino - sostiene il presidente della Federazione degli esuli, Renzo Codarin - è la persona nel centrosinistra che è più informata sulla situazione e sulle nostre vicende. La strada dell’indennizzo è una soluzione molto importante anche se il tavolo che il governo ha aperto con gli esuli non ha fatto alcun passo in avanti in questa direzione». «Per quel che riguarda le restituzione dei beni speriamo che veramente riparta una trattativa serrata perché a tutt’oggi oltre alle parole non c’è stato niente».