Già in epoca moderna numerosi erano gli abitanti della Carnia che si spostavano anche molto lontano a svolgere svariati mestieri di cui erano diventati specialisti, non diversamente da quanto accadeva in altre aree alpine . Erano tessitori, artigiani, facchini, domestici e soprattutto merciai ambulanti, i cramârs. Erano chiamati anche materialisti, crameri, e simili. Si dirigevano soprattutto verso i paesi dell’Europa centrale,vendendo di paese in paese mercerie e spezie, che provenivano da Venezia. Alcuni diventano mercanti all’ingrosso di tali prodotti, impiantando magazzini nei centri principali delle aree di smercio, cui fanno capo i venditori al minuto. Alcune fortune non indifferenti si costruiranno su questa base, che si rifletteranno in un miglioramento delle condizioni di vita nei paesi d’origine, costruendo case signorili, acquistando beni fondiari sia in Carnia, sia in altre aree, ad esempio in Istria. Si può parlare in questi casi di una “emigrazione del benessere”, per mantenere e consolidare un livello di vita altrimenti non ottenibile. Si crea una gerarchia sociale ed economica, da mercanti sono anche prestatori in denaro o in generi da smerciare verso gli stessi cramârs. Finirà durante il XIX secolo, pur resistendo ancora alcune piccole sacche tradizionali in alcune aree, quando lo sviluppo industriale muta radicalmente il quadro economico europeo. Nel settore tessile la meccanizzazione dei processi produttivi e la diversificazione dei prodotti, sempre più “di serie” e a basso costo, decretano la fine dei tessitori e dei sarti, mentre l’estendersi stesso dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, della rete dei trasporti richiede sempre più braccia per i lavori connessi all’edilizia: braccianti, manovali, fornaciai, scalpellini, muratori, boscaioli ed altri specialisti nel lavorare il legname. Cambiando la domanda, l’offerta si adegua, percorrendo strade di emigrazione già note alle comunità di partenza, ma cambia la stagionalità: non più nei mesi invernali, ma dalla primavera all’autunno, nel periodo più favorevole ai lavori edili, con serie conseguenze di lungo periodo sul delicato equilibrio del settore agricolo e pastorale. Mancando la forza lavoro più robusta ed esperta nei periodi di maggior intensità di lavoro nei campi, questo grava sempre più sui rimasti, anziani, donne, bambini, conducendo ad un progressivo degrado del sistema agro silvo pastorale soprattutto e delle sue capacità produttive: si innesta di conseguenza un circolo vizioso per cui di fronte al calo della produttività agricola, al suo peggioramento qualitativo, all’aumento della popolazione, alle aspettative che il relativo benessere, o almeno la sicurezza della continuità del lavoro e dei redditi che l’emigrazione “di mestiere” sembrava garantire, l’unica risposta è riporre sempre più intensamente, quantitativamente e qualitativamente, nell’emigrazione il futuro individuale e familiare. In questo periodo il fenomeno migratorio non interessa più solo la montagna, ma riguarda aree più vaste, toccate dalle ricorrenti carestie dei primi decenni dell’Ottocento, in cui le notizie di possibilità di lavoro e di sistemazioni possibili girano incontrollate: nonostante la severità delle autorità austriache nel concedere i passaporti, oltre 17.000 persone l’anno in media emigrano dal Friuli tra il 1827 e il 1836, e sicuramente più numerosa e l’emigrazione clandestina, incontrollabile e in ultima analisi tollerata, soprattutto se diretta verso i territori di dominio asburgico.
Con l’annessione del Friuli al Regno d’Italia non modifica nella sostanza un fenomeno migratorio che ha già una fisionomia consolidata e una lunga tradizione: ci si dirige per lo più verso i paesi dell’Europa centro orientale, durante i mesi estivi. I percorsi migratori, le destinazioni ed i relativi mestieri, le motivazioni che spingono a partire e a scegliere una specifica destinazione, non mutano e se mai si affinano: la crescita economica dei paesi europei si manifesta in uno sviluppo dell’edilizia e delle infrastrutture che richiede sempre più, accanto ad una manodopera non qualificata ancora numerosa, professionalità e specializzazioni particolari ed aggiornate, ed anche la capacità di inserirsi in un’organizzazione del lavoro sempre più complessa. Nel periodo tra l’annessione e il nuovo secolo scompaiono i commercianti ambulanti, i salumai, i coltellinai, i falegnami, i cavatori di torba della valle del Torre, gli squadratori di traversine ferroviarie della val Tramontina, per lasciare sempre più spazio a boscaioli, addetti alle segherie di legname, muratori, fornaciai, scalpellini, terrazzai e mosaicisti. Alle mete consuete in Austria, Ungheria, Germania (dove si dirigono all’inizio del ’900 almeno il 90% degli emigranti), si aggiungono gli stati danubiani, la Turchia, la Russia, la Francia e la Svizzera. Il numero degli emigranti friulani oscilla nel periodo che va dalla metà del secolo agli anni Ottanta tra 17.000 e i 25.000 l’anno, con forti oscillazioni legate a momenti e contingenze particolari, per poi crescere regolarmente dai 20.000 l’anno del 1881 ai 37.000 di dieci anni dopo, al picco di 56.000 nel 1899, per poi calare lentamente fino ai 36.000 del 1911 e risalire rapidamente agli oltre 52.000 del 1914. Si va dal 3,5 – 5,6 % della popolazione residente nella Provincia di Udine negli anni fino al 1881, al 7,3% del 1891, al 10,3% del 1899, al 5,7% del 1911, infine all’8,2% del 1914. Ma queste cifre hanno un valore relativo e rimangono al di sotto della realtà almeno fino agli inizi del ’900: Giovanni Cosattini nel 1903, nella prima indagine rigorosa sull’emigrazione temporanea friulana, afferma che, in base a statistiche ferroviarie, erano più di 80.000 gli emigranti annuali, pari al 13% della popolazione residente, con punte del 25% dal Distretto di Moggio Udinese, del 18% da quello di Gemona, del 15% da Tolmezzo e San Daniele, per toccare il 4,8% a San Vito al Tagliamento (1,5 nel 1881), 4,8% a Latisana (0,99 nel 1881). Nel 1914 l’ispettore del lavoro Guido Picotti, un altro attento osservatore di allora del fenomeno migratorio, valutava in 85.000 il numero di coloro che in quell’anno si erano recati per lavoro in Europa o oltreoceano, rappresentando il 37% dell’emigrazione dall’area del Veneto (nel quale il Friuli era inserito nella struttura amministrativa dello Stato italiano) che a sua volta copriva il 18% di tutta l’emigrazione italiana (1). Ancora nel 1877 l’allora vicesegretario della Direzione generale della Statistica, Bonaldo Stringher, raffrontando i dati dei passaporti emessi e le notizie fornite dai sindaci friulani, ricalcala il numero degli emigrati di quell’anno da 10.000 a 16.000, senza poter tener conto peraltro di quelli clandestini. Uno dei problemi maggiori per la conoscenza del fenomeno migratorio è appunto la quantificazione, in particolare nei periodi in cui più rilevante è quella clandestina o comunque non rilevata da mezzi d’indagine adeguati. Anche quando il Regno d’Italia si doterà di strumenti di rilevazione statistica specifici per l’emigrazione, questi saranno in grado di approssimarsi solo per difetto alla reale consistenza del fenomeno, almeno fino al 1904. L’ultimo ventennio dell’Ottocento vede l’estendersi del fenomeno migratorio di massa alla pianura e la comparsa accanto agli spostamenti annuali dei trasferimenti definitivi oltreoceano. Anche se la distinzione tra temporanea e permanente (a quei tempi era detta “propria”, considerando “impropria” quella di breve durata e ricorrente, sempre con l’intento di rientrare in patria) era ed è imprecisa, in quanto anche chi si recava in Europa spesso decideva di stabilirvisi definitivamente, e chi si trasferiva oltreoceano progettava di fermarsi per un periodo lungo, per “far fortuna” e raggranellare una sufficiente somma di denaro e poi rientrare, resta una distinzione utile e soprattutto corrispondente a realtà, caratteri, esiti diversi e specifici. L’emigrazione stagionale nei paesi europei segue percorsi via via consolidati, spesso in gruppi professionali che hanno la stessa origine territoriale, in molte occasioni coordinati da un organizzatore – mediatore del posto, assicura un reddito non alto ma abbastanza costante che può essere reinvestito nei luoghi di origine per migliorare le abitazioni, ampliare le proprietà familiari, assicurare un decoroso livello di vita alla famiglia, avviare i figli ad un’istruzione professionale di base. L’emigrazione oltreoceano si configura invece o come un abbandono radicale dei luoghi di origine, seguito all’alienazione dei propri beni, oppure in un’impresa “a rischio”, nella quale si cerca in un arco più o meno breve di tempo di accumulare guadagni elevati e poi rientrare. Nel 1875-76 iniziano gli espatri verso le Americhe dal Distretto di Fagagna e di San Vito e poi progressivamente da altre località: nel 1878 arrivano a quasi 3.000 gli emigranti diretti principalmente in Sud America, attratti anche dalla propaganda svolta dai governi di Argentina e Brasile, attraverso gli agenti di emigrazione, che operano per conto delle compagnie di navigazione, che trovano un ambiente disposto a recepirla. La popolazione contadina della media e bassa pianura risente di una lenta ed inesorabile erosione dei propri redditi, a causa sia della grande crisi agraria di quegli anni, sia della diffusione delle malattie della vite e del baco da seta, che falcidiano le produzioni più diffuse e redditizie, sia del pesante carico fiscale (tassa sul macinato, sul sale)e della rigidità dei patti colonici in uso, che scaricano sul colono gli effetti della crisi. Il fenomeno esploderà tra il 1887 e il 1889, quando le partenze per il Nuovo Mondo si avvicinano alle 5.000 l’anno, e non saranno i più miseri ad emigrare, ma coloro che dispongono di capitali, anche se modesti, e spirito d’iniziativa: più che la miseria sono la mancanza di prospettive, l’incertezza del futuro, i rapporti sociali troppo stretti ed oppressivi ad indurre ad andarsene. Quello che ormai sta diventando un esodo dalle campagne preoccupa le classi dirigenti agrarie, divise tra l’ostilità a un processo che le priva di una sottomessa forza lavoro, e l’ineluttabilità di un fenomeno che alleggerisce l’eccessiva pressione demografica, risolve senza coinvolgerle il problema della miseria e dell’arretratezza, che se mai deve essere regolato. Verso la fine del secolo anche i coloni e i piccoli proprietari della pianura vanno a ingrossare le fila dell’emigrazione temporanea: non possono far valere mestieri come quelli degli abitanti della montagna e si devono adattare ai lavori più umili e peggio pagati: manovali, sterratori, fornaciai soprattutto in stabilimenti per la produzione di laterizi austriaci e tedeschi, dove la spietata concorrenza portata dai friulani agli operai locali si reggeva su spaventose forme di sfruttamento e autosfruttamento, di lavoro minorile, di danni irreversibili alla salute. La contrapposizione tra manodopera locale ed operai friulani caratterizza, con accentuazioni più o meno marcate, gli anni del grande afflusso di emigranti sul mercato del lavoro di Austria e Germania. La disponibilità ad accettare salari più bassi, ad accollarsi grandi carichi di lavoro, a risparmiare su tutto, compresa l’alimentazione, che continua ad avere come base la polenta, a prendere il posto di altri senza alcuna esitazione, fa considerare i friulani come un elemento perturbatore del mercato del lavoro e delle relative controversie: diffusa è la fama di krumiri. Con molta fatica le organizzazioni sindacali dei paesi di destinazione cercheranno di lenire questo conflitto, offrendo anche agli immigrati il loro sostegno e la tutela rispetto agli abusi dei datori di lavoro, indirizzandoli verso le località e i settori produttivi con maggior domanda di lavoro, e soprattutto favorendo la costituzione di organizzazioni di supporto all’emigrazione anche nei luoghi di partenza. Su queste premesse si costituirà a Udine nel 1900 il Segretariato per l’Emigrazione, su iniziativa del giovane avvocato socialista Giovanni Cosattini, con la finalità di assistere, coordinare, indirizzare l’emigrazione temporanea friulana, in collaborazione con altre istituzioni sia nazionali, sia nei paesi di destinazione. Con analoghi compiti assistenziali nasceva nel 1901 il cattolico Segretariato del Popolo. Anche l’emigrazione transoceanica, ridottasi progressivamente a meno di un migliaio di unità all’inizio del secolo, risale repentinamente dal 1904, scendendo raramente al di sotto delle 3.000 persone l’anno, con punte di oltre 6.000 nel 1906 e nel 1912, fino alle 10.000 del 1913 e le 9.000 del 1914. I principali luoghi di destinazione in Europa sono sempre L’Austria, la Germania, l’Ungheria, ma anche Serbia, Romania, Turchia; dall’inizio del secolo anche Francia e Svizzera iniziano ad attirare migliaia di emigranti. Oltre Oceano le destinazioni principali sono ancora Argentina e Brasile, ma con espatri in calo dalle punte di rispettivamente 4.500 e 2.500 del 1888, fino al 1904, quando sono superati dagli Stati Uniti e dal Canada, verso i quali in quell’anno si dirigeranno 1.500 friulani, che saliranno progressivamente fino agli 8.000 del 1914.
1 A Giovanni Cosattini, fondatore e anima del “Segretariato dell’Emigrazione”, poi deputato socialista e primo sindaco di Udine nel secondo dopoguerra, si deve la fondamentale descrizione contenuta in L’emigrazione temporanea dal Friuli, Roma 1903, ristampato con prefazione di F. Micelli, Trieste, 1983. Guido Picotti rende note le risultanze delle indagini svolte dal suo ufficio in vari articoli pubblicati sul quotidiano udinese “La Patria del Friuli”. Vi fanno riferimento tutti gli studi successivi sul fenomeno, tra i quali B.M. Pagani, L’Emigrazione friulana dalla metà del secolo XIX al 1940, Udine, 1968, che riporta in sintesi i dati quantitativi sull’emigrazione friulana per sottoperiodi, aree territoriali e fonti di rilevazione. Analogo quadro quantitativo è offerto dai due volumi di G. Di Caporiacco, Storia e statistica dell’emigrazione dal Friuli e dalla Carnia, Udine, 1969. Da questi saggi emergono con evidenza le forti differenze nei dati quantitativi proposti dalle diverse fonti cui gli autori fanno riferimento, talché è praticamente impossibile giungere a una valutazione numerica del fenomeno migratorio che non sia tendenziale.
Dalla Carnia emigrano principalmente muratori, carpentieri, scalpellini, addetti alle segherie e si dirigono principalmente in Austria e in Germania. Alcuni raggiungono la Romania, la Turchia e anche l’Egitto. Nel primo decennio del Novecento l’11% dell’emigrazione carnica è composta da donne, metà di esse proviene dalla Val Resia e accompagna i mariti, artigiani o commercianti ambulanti; negli altri casi si tratta di domestiche o di addette alla cucina dei gruppi organizzati di operai, tra i quali ci sono i loro mariti, o di addette a particolari lavori, come l’accatastamento delle tavole nelle segherie o il trasporto di materiali nei cantieri edili. I ragazzi erano meno numerosi, attorno al 3%, solitamente apprendisti muratori e braccianti, sottoposti comunque a pesanti lavori di trasporto. Anche dalla area montana e pedemontana della Destra Tagliamento si emigra per lavorare nel settore edile, ma con una particolare specializzazione, quella di mosaicisti e terrazzieri, che avviata nella zona di Sequals, si estende in tutta l’area circostante: questa particolare attività trova occasione di esprimersi in tutta Europa e fuori di essa. Molti anche gli specialisti in costruzioni ferroviarie e stradali e gli scalpellini e i minatori delle zone di Aviano e Montereale e della Val Cellina: trovano lavoro anche nelle miniere del Nord America Verso le Americhe si emigra dalla pianura della Destra Tagliamento, a fare lavori non qualificati, nell’agricoltura o nell’edilizia o nelle miniere, ma soprattutto per rimanervi, nelle varie colonie costruite dal nulla sui terreni dati in concessione governativa. Dall’inizio del secolo in Sud America va ormai solo chi ha una professionalità precisa e si dirige verso i grandi centri urbani. E’ l’America settentrionale ora che attrae di più, con le possibilità di lavoro nelle grandi opere edilizie, stradali e ferroviarie, e negli stabilimenti industriali: vi si dirigono soprattutto dalle zone di San Daniele, Codroipo, Latisana, San Pietro al Natisone. Dalla pianura in genere provengono i fornaciai, sia dal Pordenonese che dal Circondario di Udine, rappresentando circa l’80% dell’emigrazione di quelle zone, e tra essi numerose donne e ragazzi, sottoposti anch’essi a lavori pesantissimi e orari massacranti: sono ingaggiati da piccoli imprenditori della zona di Buia, Maiano, Fagagna, che appaltano a loro volta la produzione nelle fornaci del centro Europa, tenendo basse le loro offerte e di conseguenza pagando pochissimo gli operai. Si tratta del caso tipico dell’emigrazione non professionale, per la quale non erano richieste, tranne che per i capi operai, competenze particolari, a differenza dei muratori e capimastri che, soprattutto se organizzati in gruppi omogenei, esperti e specializzati, erano in grado di assumere lavori tecnicamente impegnativi e quindi adeguatamente compensati.
Il disordine dei primi anni della grande emigrazione, le illusioni, gli inganni, le pessime condizioni di vita, suscitarono oltre all’intervento diretto delle associazioni di aiuto e tutela degli emigranti, anche un dibattito sociale e politico che portò in età giolittiana all’emanazione di una serie di provvedimenti legislativi indirizzati alla regolamentazione e alla tutela sociale ed economica dell’emigrazione. La prima norma risale al 1901 e mira a tutelare gli emigranti in patria e durante il viaggio, oltre che a sorvegliare ed eliminare l’emigrazione clandestina: viene costituito un organo speciale governativo, il Commissariato della Emigrazione”, sorretto da un Consiglio dell’Emigrazione, che ha come referenti e articolazioni locali i Comitati comunali e mandamentali dell’emigrazione, che hanno il compito di fornire informazioni sui passaporti, i costi dei viaggi, le possibilità di lavoro, le cautele da usare per evitare frodi. Sopprime inoltre le figure degli agenti di emigrazione, su cui ricadeva la responsabilità di numerose frodi ed inganni, sostituendoli con i rappresentanti dei “vettori”, cioè delle compagnie di navigazione, rese peraltro responsabili delle condizioni economiche e materiali dei viaggi. Queste ultime debbono essere verificate da ispettori nei principali porti di imbarco. La legge però non ottiene i risultati previsti in quanto l’emigrazione, pur tutelata, non è organizzata e soprattutto non riesce a proteggere l’emigrante una volta all’estero. Solo nel 1904 e solo con la Francia viene stipulato un accordo in tale senso. In altri stati di emigrazione, come quelli di lingua tedesca, solo la collaborazione tra associazioni e organizzazioni sindacali favorirono il collocamento al lavoro e salvaguardia di garanzie minimali economiche e sociali. Nel 1910 alcune disposizioni aggiornano la legge precedente, disciplinando gli istituti di assistenza agli emigranti e nel 1911 si proibisce il rilascio di passaporto ai minori di 12 anni non accompagnati. Nello stesso anno viene istituito un “Ufficio della emigrazione per i confini di terra”, con lo scopo di assistere l’emigrazione continentale e reprimere quella clandestina. Nel 1913 è resa obbligatoria l’autorizzazione del Commissariato per il trasferimento di operai italiani all’estero, possibile solo in presenza di un contratto di lavoro e dell’assicurazione contro gli infortuni. Questa legislazione e gli organi di controllo e tutela da essa previsti non incisero se non in minima parte però sull’emigrazione autonoma e clandestina di singoli o gruppi, che rimase quantitativamente prevalente.
In senso positivo allevia la sovrappopolazione relativa in agricoltura, risollevando in generale i redditi della popolazione nel suo insieme. Anche l’allontanamento definitivo diminuisce la concorrenza sul mercato del lavoro agricolo, migliorando la capacità contrattuale di chi resta nei confronti dei proprietari terrieri. Le rimesse degli emigranti, valutabili tra i 20 e i 30 milioni di lire di allora all’anno all’inizio del secolo, permettono di consolidare le piccole proprietà familiari, casa, terre, bestiame. La crescita della domanda di terra però portava ad un aumento dei prezzi e del valore fondiario della stessa, che si rifletteva sui costi degli affitti per i coloni. L’emigrante più povero, come il fornaciaio, si trovava costretto con il suoi lavoro a far fronte ai debiti colonici, senza riuscire a svincolarsi dal circolo vizioso. Nei casi in cui i redditi da emigrazione sono maggiori, essi non sono però utilizzato per avviare una propria attività professionale in patria, bensì per migliorare la propria collocazione nell’emigrazione, come intermediario o piccolo imprenditore autonomo. Il futuro dell’emigrante si gioca cioè sempre nell’ambito dell’emigrazione, mentre i beni a casa, affidati a donne, giovani e anziani, hanno una funzione di riserva. Le assenze per lunghi periodi degli uomini in età giovanile e matura ha indotto nel medio periodo a mutamenti di costumi e modi di vita non sempre positivi (ad esempio la diffusione dell’alcolismo, l’abbandono delle famiglie)e a un calo demografico che porterà effetti sensibili in seguito, incidendo in maniera permanente nella struttura demografica della popolazione (senilizzazione, femminilizzazione). Lo scoppio della prima guerra mondiale, nell’agosto del 1914, che interessa i principali luoghi dell’emigrazione stagionale friulana, spezza repentinamente i percorsi di lavoro consolidati da decenni e impone il rientro, se non sempre forzato, comunque inevitabile. Nel 1915 gli espatri sono poco più di 2.000, di cui poco meno di ottocento verso gli Imperi Centrali, di cinquecento in Svizzera, di duecento in Argentina, circa trecento in Nord America. Nel volgere di pochi mesi i redditi dell’emigrazione sono azzerati, gli emigranti diventano disoccupati, solo in parte impiegati in lavori di interesse militare, molte fortune, anche cospicue, costituite nei territori degli Imperi Centrali da imprenditori friulani vanno perse, requisite in quanto proprietà nemiche dopo l’entrata in guerra dell’Italia: solo alcune e solo in parte potranno essere recuperate dopo la guerra, dopo interminabili contenziosi giudiziari, quando ormai le condizioni politiche ed economiche dei paesi sconfitti non permetteranno di svolgere una funzione paragonabile a quella dell’anteguerra.
Lo scoppio della prima guerra mondiale, nell’agosto del 1914, che interessa i principali luoghi dell’emigrazione stagionale friulana, spezza repentinamente i percorsi di lavoro consolidati da decenni e impone il rientro, se non sempre forzato, comunque inevitabile. Nel 1915 gli espatri sono poco più di 2.000, di cui poco meno di ottocento verso gli Imperi Centrali, di cinquecento in Svizzera, di duecento in Argentina, circa trecento in Nord America. Nel volgere di pochi mesi i redditi dell’emigrazione sono azzerati, gli emigranti diventano disoccupati, solo in parte impiegati in lavori di interesse militare, molte fortune, anche cospicue, costituite nei territori degli Imperi Centrali da imprenditori friulani vanno perse, requisite in quanto proprietà nemiche dopo l’entrata in guerra dell’Italia: solo alcune e solo in parte potranno essere recuperate dopo la guerra, dopo interminabili contenziosi giudiziari, quando ormai le condizioni politiche ed economiche dei paesi sconfitti non permetteranno di svolgere una funzione paragonabile a quella dell’anteguerra. La fine della guerra, le distruzioni causate e dall’essere stata la regione campo di battaglia e retrovia prima, territorio occupato e depredato dagli austro tedeschi dopo Caporetto, presentò ai reduci un quadro di desolazione e miseria, per cui, dopo alcuni tentativi di avviare lavori di ricostruzione da parte di cooperative di operai, la strada dell’emigrazione si ripropose come unica valvola di sfogo per una pressione demografica incontenibile, nonostante le forti perdite in vite umane causate dalla guerra. Lo stesso destino toccò alle popolazioni dei territori ex Austriaci annessi al Regno d’Italia, che avevano già sperimentato in precedenza percorsi migratori analoghi a quelli del Friuli italiano. Cambiano però i flussi, non il tipo di lavoro: muratori, terrazzieri, mosaicisti, si dirigono ora verso la Francia, il Belgio, il Lussemburgo, la Svizzera: nel ’20 sono più di mille in questo Paese, 16.000 in Francia. Dai paesi della pianura riprendono i viaggi verso il Sud America (sono già un migliaio nel 1919 e 1920, un migliaio in questi due anni solo dalla località di Cordenons), gli Stati Uniti (quasi 3.000 nel 1920), il Canada (più di 1.500 in quell’anno). Cambia anche la fisionomia dell’emigrazione: non più gruppi organizzati da impresari e appaltatori locali, ma un ricerca individuale di lavoro, il frazionamento dei gruppi omogenei di lavoratori che avevano caratterizzato la loro attività nei paesi europei. Si diluiva anche la specializzazione territoriale di mestiere: addetti al settore edile partono ormai da tutto il territorio provinciale, nelle miniere del Nord America si arriva da varie parti; agricoltori della Bassa friulana e della Destra Tagliamento lavoravano nelle aziende agricole brasiliane e australiane. Il maggior contributo all’emigrazione veniva ancora dalle aree montane e pedemontane.
La situazione di guerra in cui si trovò l’Europa con il settembre del 1939 costrinse la gran parte degli emigranti a rientrare, sia perché richiamati alle armi, sia perché in molti casi si trovavano all’interno di stati (ad esempio la Francia) in stato di guerra con l’Asse, anche se l’Italia si manteneva ancora “non belligerante”. L’entrata in guerra infine anche dell’Italia portò all’internamento degli emigranti italiani presenti nei paesi cui essa aveva dichiarato guerra, oppure, in alcune particolari situazioni in cui l’emigrazione aveva avuto anche connotazioni politiche, alla partecipazione anche di emigrati italiani allo sforzo bellico contro l’Asse (esempio ne è la partecipazione di italiani e friulani alla resistenza in Francia). Alla fine della seconda guerra mondiale il Friuli e la Venezia Giulia portano i segni di un’occupazione tedesca che mirava ad una prospettiva annessionistica del territorio regionale, a portare agli ultimi esiti la politica razziale nazista, a distruggere ogni opposizione con metodi di guerra spietati. Sono stati teatro della guerra partigiana condotta sia dalla resistenza italiana, sia da quella Jugoslava. L’appartenenza nazionale della Venezia Giulia, del Goriziano, di una parte del Friuli erano oggetto di un contenzioso che coinvolgeva i combattenti antinazisti, le nazioni e gli stati cui facevano riferimento, le stesse potenze alleate. L’andamento degli ultimi mesi di guerra prefigurava il destino delle terre contese. Gran parte dei territori acquisiti dall’Italia dopo la prima guerra mondiale, abitati da sloveni e croati, sarebbero entrati a far parte del nuovo stato jugoslavo, che rivendicava anche le città principali, Trieste e Gorizia, e la fascia orientale del Friuli, mentre il regno d’Italia, debole e sotto tutela, si richiamava all’antica appartenenza alla nazione italiana di queste terre e ai sacrifici affrontati per riscattarsi dal passato fascista. L’azione diplomatica e la presenza militare definirono già allora la situazione del dopoguerra: Fiume, l’Istria, la parte orientale della provincia di Gorizia passavano alla Jugoslavia, Il Governo Militare Alleato manteneva il controllo del territorio fino alla ratifica del trattato di pace nel settembre del 1947, in forma indiretta nella provincia di Udine, diretta in quella di Gorizia e nella zona A del territorio di Trieste. La zona B dello stessa era sotto amministrazione militare jugoslava. Per Trieste tale la situazione si prolungò poi, non venendo mai attuato compiutamente il previsto Territorio Libero sotto egida dell’ONU, fino al 1954, quando le due zone, A e B, passarono sotto la diretta sovranità dei due stati. In quel periodo maturò il dramma dell’esodo dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia della grandissima parte della popolazione italiana (tra le 250.000 e 300.000 persone) che furono raccolte come profughi a Trieste e in varie località italiane. Molte, subito o negli anni successivi, presero la via dell’emigrazione.
Alla fine del conflitto tornarono alla luce problemi che la guerra aveva nascosto: arretratezza dell’agricoltura, scarsità di risorse materiali e finanziarie, debolezza del sistema produttivo, sovrabbondanza di manodopera, cui si aggiungevano i danni della guerra, soprattutto nelle infrastrutture, negli edifici, nelle vie di comunicazione. 50.000 sono i disoccupati, mentre il costo della vita tende ad essere insostenibile anche per chi ha un lavoro. L’emigrazione torna ad essere una via quasi obbligata. A metà 1946 partono i primi gruppi di operai per le fornaci austriache, poi per le miniere del Belgio e per altri paesi europei. A fine anno sono già 1.300 gli emigranti ufficiali, 10.000 nel 1947 e nel 1948, ma molti di più quelli si spostano clandestinamente. Le strade percorse sono quelle già note, verso la Francia, ma anche il Belgio e il Lussemburgo; la Svizzera dal 1951 diventa per la prima volta luogo di attrazione, in sostituzione di Francia e Belgio, per la grande domanda di manodopera innescata dalla sua crescita industriale Nel 1947 inizia un notevole flusso verso l’Argentina e, in misura minore, il Brasile, che chiedono agricoltori, e il Venezuela, che attira lavoratori edili. Dal 1949 molti giovani raggiungono il Canada e negli anni seguenti l’Australia. Alla fine degli anni cinquanta è la Germania Occidentale, in pieno sviluppo economico, che diviene un punto di attrazione. L’emigrazione del secondo dopoguerra è caratterizzata da una maggiore presenza dei governi nelle politiche migratorie, attraverso contatti ed accordi che permettono di indirizzare e controllare i flussi migratori. Per l’Italia rappresenta un passaggio fondamentale per governare l’eccesso di manodopera, garantirsi l’acquisizione si valuta estera, instaurare relazioni diplomatiche più strette con i paesi di emigrazione. Gli accordi intergovernativi servono a superare gli ostacoli e le limitazioni che ogni paese frappone alla libertà di movimento e di ricerca di lavoro degli stranieri, anche a tutela dei propri connazionali, su sollecitazione spesso delle organizzazioni sindacali locali che paventano una ricaduta negativa sull’occupazione e il redito dei lavoratori locali. L’emigrazione assistita, curata dal Ministero del Lavoro, riguarda grandi numeri di lavoratori, assunti con contratti collettivi di lavoro, e garantisce una serie di agevolazioni per l’ottenimento della documentazione, per le spese di viaggio, per la prima accoglienza nelle “Case dell’Emigrante”. La contropartita è data dal livello elevato di condizione fisica e capacità professionale richieste per accedere a questo tipo di emigrazione, per cui l’espatrio “libero”, senza contatti preliminari, seguendo la tradizionale “catena migratoria”, per cui la presenza di parenti e amici o le notizie che da essi provengono indirizzano i percorsi migratori. La crescita economica europea del dopoguerra, assieme alle maggiori possibilità di conoscenza del mercato del lavoro che enti pubblici e associazioni private offrono, come conseguenza degli accordi internazionali e delle relazioni mantenute con i connazionali all’estero, fa divenire sempre più attenta la scelta del luogo di emigrazione. L’industrializzazione avanzante favorisce l’evoluzione delle caratteristiche professionali degli emigranti, che sempre più numerosi passano dalla tradizionale occupazione nell’edilizia, a quella nell’industria manifatturiera. Gli anni Cinquanta e Sessanta segnano un progressivo aumento del fenomeno migratorio dal Friuli, con la costante di coinvolgere maggiormente le aree montane e pedemontane, ma anche in questo caso è difficile definirne l’entità a motivo dei diversi metodi di rilevazione e di quantificazione del fenomeno migratorio: alcune valutazione attendibili fanno risalire a 44.000 gli emigranti friulani nel 1951, a numeri che oscillano tra 53.000 e gli 80.000 negli anni Sessanta (6). Ma più che l’entità del fenomeno nel suo insieme è rilevante la sua distribuzione, che vede interessate in maniera rilevante le aree più marginali della regione. In un dibattito al Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia dell’ottobre 1965 veniva sottolineato come nella zona delle Prealpi Carniche il 24% della popolazione attiva (8.000 persone) fosse emigrata, con un trend crescente rispetto agli anni precedenti /13,5% nel 1957, 17% nel 1961), con punte che in alcune località superavano la metà della forza lavoro maschile attiva, avvicinandosi in certi casi al 90%. Analogamente nelle Prealpi Giulie l’emigrazione riguardava ben oltre la metà degli attivi. Per quanto riguarda la Carnia, in quella sede erano valutati in oltre 22.000 gli emigranti nel 1961, saliti a 26.000 nel 1965; nello stesso periodo le rilevazioni della Comunità Carnica mostravano che la media degli emigranti stagionali tra primo decennio del dopoguerra e anni sessanta saliva da 9.000 unità (10% dei residenti) a 12.000 (13,5% dei residenti) negli anni sessanta Cresce contemporaneamente anche l’emigrazione permanente (13% della popolazione residente tra 1945 e 1960), portando a un progressivo spopolamento ulteriore delle aree montane, che perdono tra 1951 e 1971 il 24% dei residenti, pari al 34% della popolazione attiva. Le discordanze sulla quantificazione riflettono anche le difficoltà nel distinguere gli spostamenti, stagionali, periodici o definitivi che siano, tra esterni all’Italia ed interni. Fino comunque agli anni sessanta compresi la mobilità esterna tende a superare quella interna. Molti emigranti tendono a mantenere la residenza nel luogo di origine per molto tempo e le cancellazioni anagrafiche non tengono conto degli emigranti stagionali e temporanei. L’emigrazione all’estero continua ad esercitare un’influenza negativa nei luoghi di emigrazione, soprattutto nel caso degli emigranti singoli che non si fanno seguire dalle famiglie, in quanto si alimenta un’inflazione da rimesse monetarie che vengono impiegate in settori non produttivi (consumi delle famiglie, saldo di debiti, acquisto o migliorie di immobili). Se nel 1942 ammontavano a 2,5 miliardi di lire, nel 1958 erano 7,17 e nel 1963 quasi 10, raccolte principalmente dal settore bancario (7.) 6 I primi valori sono indicati da O.Lorenzon e P. Mattioni, L’emigrazione in Friuli Camera di Commercio di Udine, 1962. Secondo G. Bazo, popolazione e forza lavoro , Camera di Commercio di Udine, 1961, a quella data gli emigranti erano 80.000, secondo G.B. Metus, Una politica di sviluppo regionale, Udine, 1966, erano a quella data 70.000 in tutta la regione, lo stesso valore indicato successivamente da G. Bazo, N. Parmeggiani, G. Maggi Esame dei problemi economici della provincia di Udine, Camera di Commercio di Udine, 1967, 7 R. Meneghetti, Le rimesse degli emigranti1945-1964.Politica economica e politica del diritto, in “Storia contemporanea in Friuli”, XVI, n.17, 1986, pp.31-60
Un fenomeno relativamente nuovo è la partecipazione femminile autonoma all’esperienza migratoria. E’ la Svizzera ad attirarle per prima, a partire già dal 1947, raggiungendo agli inizi degli anni cinquanta rappresenta il 30% della manodopera lì immigrata. Dapprima i lavori svolti erano quelli tradizionali, di cameriere presso famiglie e alberghi, per passare poi all’impiego in fabbriche tessili, dolciarie e infine di meccanica di precisione ed altri settori. L’industria leggere ha attirato giovani donne anche in Belgio e in Germania.
Tramite indagini approfondite sul territorio è stato possibile ipotizzare una periodizzazione dei flussi migratori dell’ultimo trentennio, sottolineando le differenze territoriali . Tra il 1962 e il 1964 c’è stato un breve periodo di calo del fenomeno, con un saldo migratorio positivo, legato agli inizi di una crescita industriale in regione, in particolare nel polo pordenonese, che richiede manodopera poco qualificata e bassi salari. Dal 1965 al 1969 c’è una ripresa migratoria consistente, che riguarda non solo l’estero ma anche l’interno. Sono le aree marginali e ancora sottosviluppate che alimentano questo flusso, dalle quali si muove una manodopera poco qualificata che proviene dall’agricoltura dall’edilizia o da lavori generici. Il tradizionale settore edile diviene un’esperienza di passaggio e di prima qualificazione industriale per chi proviene dall’agricoltura. Una crisi di passaggio “tecnologico” dell’edilizia tradizionale “povera” induce dinamiche di trasferimento verso le aree di sviluppo industriale in Europa. A questi spostamenti si uniscono anche coloro che, con una qualificazione professionale, non trovano in regione sbocchi adeguati e si spostano, ad es. in Svizzera e in Germania, dove trovano una collocazione adeguata e salari più alti. Sono mete sostitutive anche per chi negli anni precedenti aveva preso la strada dell’emigrazione oltreoceano. Dai luoghi di tradizionale emigrazione, come la montagna, partono persone giovani o giovanissime, maschi in prevalenza, ma con un sensibile aumento di presenza femminile, che hanno già acquisito un mestiere attraverso l’apprendistato e una scolarità mirata e l’apprendistato. Le permanenze all’estero possono essere di lunga durata, con costanti brevi rientri in patria, mantenendovi residenza e legami familiari, anche qualora sia stato contratto matrimonio nel luogo di emigrazione: questa circostanza è però frequentemente la premessa per una stabilizzazione all’estero o in altri comuni italiani. Questa tipologia migratoria tende a diminuire di consistenza negli anni settanta a favore di permanenze all’estero o in Italia più brevi, tra i cinque e gli otto mesi, premessa di un rientro con maggior qualificazione professionale.
Tramite indagini approfondite sul territorio è stato possibile ipotizzare una periodizzazione dei flussi migratori dell’ultimo trentennio, sottolineando le differenze territoriali (9.) Tra il 1962 e il 1964 c’è stato un breve periodo di calo del fenomeno, con un saldo migratorio positivo, legato agli inizi di una crescita industriale in regione, in particolare nel polo pordenonese, che richiede manodopera poco qualificata e bassi salari. Dal 1965 al 1969 c’è una ripresa migratoria consistente, che riguarda non solo l’estero ma anche l’interno. Sono le aree marginali e ancora sottosviluppate che alimentano questo flusso, dalle quali si muove una manodopera poco qualificata che proviene dall’agricoltura dall’edilizia o da lavori generici. Il tradizionale settore edile diviene un’esperienza di passaggio e di prima qualificazione industriale per chi proviene dall’agricoltura. Una crisi di passaggio “tecnologico” dell’edilizia tradizionale “povera” induce dinamiche di trasferimento verso le aree di sviluppo industriale in Europa. A questi spostamenti si uniscono anche coloro che, con una qualificazione professionale, non trovano in regione sbocchi adeguati e si spostano, ad es. in Svizzera e in Germania, dove trovano una collocazione adeguata e salari più alti. Sono mete sostitutive anche per chi negli anni precedenti aveva preso la strada dell’emigrazione oltreoceano. Dai luoghi di tradizionale emigrazione, come la montagna, partono persone giovani o giovanissime, maschi in prevalenza, ma con un sensibile aumento di presenza femminile, che hanno già acquisito un mestiere attraverso l’apprendistato e una scolarità mirata e l’apprendistato. Le permanenze all’estero possono essere di lunga durata, con costanti brevi rientri in patria, mantenendovi residenza e legami familiari, anche qualora sia stato contratto matrimonio nel luogo di emigrazione: questa circostanza è però frequentemente la premessa per una stabilizzazione all’estero o in altri comuni italiani. Questa tipologia migratoria tende a diminuire di consistenza negli anni settanta a favore di permanenze all’estero o in Italia più brevi, tra i cinque e gli otto mesi, premessa di un rientro con maggior qualificazione professionale. Dal 1968 in poi il saldo migratorio tende al positivo, con un prevalere dei rientri sull’emigrazione: da quella data la mobilità interna sostituisce quella interna: ciò e confermato nel 1971 dal saldo positivo dei trasferimenti di residenza dall’estero su quelli verso l’estero10. Nel 1973 la crisi economica internazionale provoca una stasi della mobilità, mentre gli effetti dello sviluppo industriale locale e una specifica legislazione regionale mirata a favorire i rientri richiamano la manodopera che emigrava periodicamente e anche chi si era stabilito all’estero. Il mercato del lavoro regionale è in grado di assorbire la manodopera prima eccedente, soprattutto se qualificata, mentre resta un esubero di quella non qualificata, che è alimentata dall’esodo dall’agricoltura. Gli effetti di lungo periodo dell’emigrazione si fanno sentire sulla struttura demografica, che risente della perdita negli anni precedenti di giovani in prevalenza maschi, per cui mancano le classi di età intermedie, più produttive e l’aumento della scolarità rinvia l’inserimento nel mondo del lavoro dei più giovani. L’offerta di lavoro diviene in tal modo più rigida, quantitativamente e qualitativamente, essendo in genere più qualificata. Gli spostamenti verso l’estero sono sostituiti da quelli verso altre regioni d’Italia o all’interno dell’area regionale, in particolare dalle aree marginali, non coinvolte dallo sviluppo economico, che peggiorano questa loro condizione anche dal punto di vista demografico. L’emigrazione all’estero tende a divenire residuale o legata a particolari professionalità e tipologie di lavoro (tecnici specializzati, giovani, con salari alti, in settori altamente qualificati, come grandi opere ingegneristiche in varie parti del mondo). I rientri riguardano principalmente famiglie con coniugi di 35-45 anni, all’estero da 10 – 20 anni, con alta qualificazione professionale, che costruiscono una propria casa e avviano in certi casi un’attività autonoma. Meno consistente è il rientro di pensionati, soprattutto se i figli rimangono all’estero. I periodi in cui si concentrano il maggior numero di rientri sono il 1966-1970 e 1970-1974, soprattutto dai paesi europei, mentre meno sensibili sono i rientri da oltreoceano. I terremoti del 1976 e la successiva ricostruzione, dopo una prima fase di incertezza e una contingente ripresa dell’emigrazione, accentuano il processo già in atto, offrendo possibilità di lavoro e di impresa che non si sono limitate alla sola fase ricostruttiva, portando alla fine di fatto del fenomeno migratorio anche nelle aree marginali, peraltro le più colpite dagli eventi sismici, dove ancora nel 1976 esso toccava livelli elevati. Si va ancora all’estero, ma o per lavori di alta qualificazione, o al seguito di grandi imprese italiane o locali che assumono appalti per grandi opere. 9 Vedi Movimenti migratori in Friuli 1960-1975: un’indagine orientativa, Udine, CRES, 1977 10 Vedi G. Valussi, Il movimento migratorio, in Enciclopedia Monografica del Friuli – Venezia Giulia, vol. 2.2 La vita economica, Trieste, 1974, pp.897-899. Quanti sono i cittadini del Friuli Venezia Giulia all’estero oggi ? L’ultima rilevazione (giugno 2005) dà 134.862 iscritti all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) originari del Friuli Venezia Giulia, presenti in 180 paesi del mondo: oltre 76.400 nei paesi europei, 32.000 in Sud America, 15.300 in Nord America, 6.300 in Australia, 3.700 in Africa, circa 1.000 in Asia (Leonardo Chinese in Cina). Oltre quattrocento sono le sedi nel mondo delle associazioni cui essi fanno riferimento come luogo di aggregazione e socializzazione (“Fogolârs Furlans” dell’Ente Friuli nel Mondo, Circoli dell’Associazione Giuliani nel Mondo di Trieste, dell’ALEF, Associazione Lavoratori Emigrati del Friuli Venezia Giulia di Udine, Segretariati dell’EFASCE, Ente Friulano Assistenza Sociale e Culturale Emigranti di Pordenone, sedi dell’ERAPLE, Ente Regionale ACLI per i Problemi dei Lavoratori Emigrati di Udine, e dell’Unione Emigranti Sloveni del Friuli Venezia Giulia di Cividale del Friuli).